Carmen Pellegrino «Volevo scrivere la storia dei figli di nessuno»

L’intervista
È conosciuta anche come “l’abbandonologa”, Carmen Pellegrino, che torna ora al Campiello con “La felicità degli altri” (La nave di Teseo, pag. 160, euro 18), dopo il libro d’esordio “Cade la terra” con cui vinse il Premio Selezione Campiello. Più che altrove, forse, in quest’ultimo testo la poetica dell’abbandono viene sviluppata al di là dei luoghi. Al centro del romanzo c’è infatti il tema dell’infanzia e le conseguenze della sua “interruzione”. Infanzie spezzate dal distacco, quando appunto si impara (se possibile) a convivere con le proprie ombre.
Torna quindi al Campiello, come si sente?
«È come tornare in un luogo in cui si è stati bene. Quindi se ne ha quasi paura: si ripeterà la bella sensazione che dalla prima volta mi ha accompagnato fin qui, malgrado gli esiti della finale in cui vincerà uno soltanto? La competizione mi affatica, non lo nascondo. Dipendesse da me, potremmo fermarci a questo punto, con noi cinque finalisti a girare un po’ smandrappati per l’Italia, accompagnati dall’impeccabile professor Piero Luxardo, che sa di letteratura e conserva la memoria storica del premio».
La sua poetica si concentra sul tema dell’abbandono, di cose e di persone. Dice anche che forse ognuno deve farsi amico le proprie “ombre”. Che significa?
«Che le ferite, per lo più, non si cancellano, specie quelle che ci sono state inferte nei nostri anni più infantili; con il tempo si attenuano, spesso sbiadiscono, ma resta traccia. Da queste possono venir fuori ombre, talvolta anche spaventose, intrappolate insieme a noi nella nostra caverna. Ma se accogliamo quel danno ormai ricevuto come parte del percorso che ha fatto di noi quel che siamo, potremmo smettere di maledirle e cominciare un’altra strada, con il loro aiuto, sapendo che le nostre paure (ombre, fantasmi, come chiamarle?) si risveglieranno quando un pericolo sarà in vista. Esse ci metteranno in guardia, ci aiuteranno».
“La felicità degli altri” affronta anche la questione dei bambini vittime d’abbandono. Com’è nata la sensibilità a questo tema?
«Volevo scrivere dei figli di nessuno, i figli dell’aria, quelli cioè che non hanno radici se non nell’aria, come certe piante aeree. Sono figli di Dio, i figli di nessuno. Anche Castore e Polluce erano figli di Dio, Dioscuri vuol dire proprio questo. Si potrebbe allora pensare, per estensione del mito, che tutti i figli di nessuno sono eroici».
Tra l’altro il profilo di uno dei personaggi è tratto da un fatto di cronaca, un anziano morto a Venezia nel suo appartamento, scoperto solo sette anni dopo. Che tipo di società abitiamo?
«Un tipo di società che parla tanto di comunità, di senso della comunità, ma che in realtà ha perduto anche il semplice senso del buon vicinato. Accade ovunque, nei Paesi ricchi come in quelli poveri. Nelle città come nei paesi. L’appartamento è divenuto una condizione esistenziale, più che una unità abitativa. Non ci riguarda il dolore degli altri. Non lo vogliamo vedere, quasi ci offende».
Cloe è un apolide, una virtuosa della fuga. Inoltre cambia tre volte il suo nome. Come mai?
«È in fuga dalle sue ombre, non sa che può farsene qualcosa. Sembrerebbe, la sua, una geografia della resa. Cambia città, case e, parallelamente, si assegna identità finte. Cambia nome, in ossequio al principio che i nomi sono conseguenza delle cose. Lo farà fino all’approdo a Venezia, la vera città eterna che (in)sorge dalle acque sorretta da tronchi, esile base sulla quale resta salda. A Venezia incontrerà il professor T., l’amico delle ombre».
C’è parecchia poesia, da Blake a Larkin passando attraverso Raboni e molti altri. E c’è una forte attenzione alle parole, italiane, straniere, dialettali. Qual è la sua ricerca?
«È la ricerca della parola che riduca lo scarto tra ciò che può essere ancora detto attraverso segni grafici non privati di senso, non svalutati, e ciò che non può essere più detto o che non è possibile dire. In questo romanzo il tema centrale non è il tramestio esistenziale di una donna alla ricerca del sé autentico: il tema è il suicidio dei bambini (da cui la riscrittura del mito di Medea), ma sembra quasi nascosto. Era quello che volevo: dirlo non opprimendo, dirlo con il non detto. La poesia mi ha aiutato, soprattutto i silenzi di Paul Celan». —
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