Bruno Cavallone «Quanta letteratura dentro i processi»
L’avvocato e docente universitario sarà oggi a Trieste per presentare il suo libro “La borsa di Miss Flite”

Il processo, a ben guardarlo, è un gran romanzo. Dove ognuno racconta la sua storia. Imputati, avvocati della difesa e dell’accusa. Perfino i giudici, che alla fine devono mettere un punto fermo scrivendo la sentenza. E allora non deve stupire se Bruno Cavallone, avvocato civilista che per lunghi anni ha insegnato alla Statale di Milano, ha scritto un libro affascinante e dotto sui rapporti strettissimi tra letteratura e giurisprudenza.
“La borsa di Miss Flite”, come si evince dal titolo, rende omaggio al grande Charles Dickens. Ma non solo. Perché nel saggio pubblicato da Adelphi non mancano gli approfondimenti su Lewis Carroll e il Pinocchio di Carlo Collodi, Franz Kafka e François Rabelais. Di questo, e di molto altro, Cavallone parlerà oggi, alle 17.30, in un incontro nella Sala Bazlen di Palazzo Gopcevich, in via Rossini 4 a Trieste. L’evento, organizzato in collaborazione con l’Università di Trieste, vuole mettere a fuoco proprio gli intrecci tra diritto e letteratura, su cui è attivo un gruppo di ricerca al Dipartimento di Scienze Umanistiche di Trieste. Nel 2015, la professoressa Maria Carolina Foi ha organizzato un convegno su questo tema e ha curato un volume per Eut, nel 2016, su “Diritto e letterature a confronto. Paradigmi, processi, transizioni”.
«Forse sono, come altri colleghi giuristi, un letterato mancato - spiega Bruno Cavallone -. Da ragazzo, lasciato a me stesso, probabilmente avrei studiato Lettere. Poi, da un lato le ambizioni paterne e familiari, dall’altro la scarsa propensione a una vita frugale, mi hanno avviato alla facoltà di Giurisprudenza».
Scelta di cui si è pentito?
«Anzi, posso dire di aver trovato un habitat piuttosto confortevole. Tanto che poi, oltre alla carriera accademica, mi sono impegnato nella professione di avvocato. Non ho mai dimenticato, però, gli interessi letterari. Tanto che, verso la fine del mio incarico universitario, sono riuscito a mettere assieme le due cose».
In che modo?
«Semplice. Mi sono fatto affidare dall’Università Statale di Milano un secondo corso. Accanto a quello di Diritto processuale civile ho aggiunto il Diritto processuale comparato. Dove, in realtà, parlavo dei rapporti tra la teoria del processo e la letteratura. Allargandomi, di tanto in tanto, verso i territori delle arti figurative e del cinema».
Lei non è figlio di avvocato...
«No, però papà faceva un lavoro non poi tanto distante dal mio. Era consulente tributario».
Il suo maestro era di origine triestina?
«Enrico Tullio Liebman era nato a Leopoli, allora in Galizia. La provincia più settentrionale dell’Impero austroungarico. Suo padre, dirigente delle Assicurazioni Generali, era andato a lavorare lì. In seguito la famiglia si era trasferita a Barcellona, dove il mio maestro aveva frequentato il Liceo tedesco, e poi a Roma. Lui si considerava triestino, viste le origini dei suoi genitori, e anche l’accento era caratteristico. Anche se non troppo marcato».
Processi e libri: partiamo da Pinocchio?
«Collodi non ha messo nel suo capolavoro una particolare attenzione per la procedura. Dopo avere scritto il capitolo dedicato a Pinocchio nella “Borsa di Miss Flite”, ho scoperto una storia buffa, che riguarda l’episodio collodiano del giudice. In un palazzo mediceo di Firenze, dove allora aveva sede la Corte d’appello, sul portale d’ingresso c’era una lunetta che raffigurava una grande valva di conchiglia. Dalla quale uscivano la testa e le mani di una scimmia».
Cosa c’entrava con il mondo delle lagge?
«Gli avvocati, ogni volta che entravano nel palazzo, la vedevano come una scimmia bardata con la toga svolazzante, la stessa che indossavano loro».
Più tecnico “Il processo” di Franz Kafka?
«Assolutamente sì. Prima di tutto perché lo scrittore praghese era laureato in Giurispriudenza. Quindi, conosceva i principi del diritto. Poi, nel romanzo ci sono diverse notizie attinte dal mondo forense. Come la descrizione della sala degli avvocati nel tribunale: molto comica. E, credo, ispirata dalla descrizione che qualcuno aveva passato a Kafka».
Lì, però, il processo è una metafora...
«Forse qualcosa di più: una malattia. Però pur sempre raccontata con occhio semiprofessionale».
Il suo libro parte da “Alice nel paese delle meraviglie” di Lewis Carroll.
«È stato tradotto spesso in Italia, però trovo che sia un romanzo misconosciuto. Lewis Carroll non era un giurista, ma aveva curiosità per il mondo forense. Amava assistere alle udienze in tribunale: come quella di un personaggio soprannominato The Tichborne Claimant, una sorta di Smemorato di Collegno inglese. Alice si dimostra una custode dei valori del diritto britannico, si scandalizza quando li vede applicati in maniera grottesca nel processo del Fante di Cuori, con cui si conclude il romanzo».
Charles Dickens: sintesi perfetta del rapporto tra letteratura e giurisprudenza?
«Aveva fatto il cronista giudiziario, conosceva bene il mondo degli avvocati inglesi. E lo dimostra non soltanto in “Bleack house”, da cui è tratto il titolo del mio libro, ma anche nel “David Copperfield”. In “Dombey and son” che affronta il tema del diritto fallimentare».
È vero che lei ha tradotto le strisce di Charlie Brown e soci?
«Ero il fratello piccolo di Franco Cavallone, poi diventato notaio. Facevamo parte di un gruppo di cui faceva parte anche Giovanni Gandini, un gran personaggio che avrebbe fatto in seguito l’editore della rivista “Linus”. Così, per la Milano Libri ho tradotto i primi quattro volumi delle strisce di Charles Schulz».
Non si è fermato lì...
«No, quando è nato “Linus”, mio fratello si è dedicato ai Peanuts. Io, invece, ho scelto Pogo, fumetto considerato intraducibile. E mi sono divertito molto».
La passione per i fumetti è rimasta?
«Non ho mai amato il genere dei fumetti come tale. Sono rimasto affascinato da personaggi come i Peanuts, Pogo, Topolino, Asterix. Molti altri, anche famosi, li ho ignorati. Tutti quelli considerati “per adulti”: Mandrake, l’Uomo Mascherato».
Quanto serve a un avvocato una buona conoscenza della letteratura?
«Il punto fondamentale è la retorica. Noi avvocati, in sostanza, siamo dei traduttori: dobbiamo dare forma logica al materiale disordinato che ci capita sul tavolo. Testimonianze, racconti dei clienti, documenti anche contraddittori. Come gli scrittori, dobbiamo organizzare il tutto in un discorso che abbia senso. Per questo, l’arte dello scrivere e del parlare ci sono indispensabili».
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