Boris Pahor per i 106 anni si regala un libro con tre inediti

Oggi il traguardo record mentre esce in Francia il volume con i contributi di Guy Fontaine e Claudio Magris
19/01/2010 Boris Pahor scrittore, fotografato a Prosecco (TS) dove adesso vive
19/01/2010 Boris Pahor scrittore, fotografato a Prosecco (TS) dove adesso vive

TRIESTE Qualche parola in sloveno con Vera, attenta presenza quotidiana, e il professore arriva a piccoli passettini, quasi pattinando sulle piastrelle. «Ho fatto una puntura anticoagulante a mezzogiorno e adesso sento le gambe tagliate» dice Boris Pahor stendendosi sul letto.

«Stamattina era super», quasi si scusa Vera mentre versa il caffè. Dalla finestra si vede il mare del golfo, a sinistra la città e a destra Miramare. Luccicano scaglie di mare. «È la casa dove stava mia sorella, mi sono trasferito dopo la sua morte».

Il professore è nato in via del Monte, «sulla salita», puntualizza, nel 1913, centosei anni fa, in una Trieste «che era molto ricca». Era ancora vivo Francesco Giuseppe, per strada si potevano incontrare Svevo, Bazlen, Saba. Pahor ha vissuto un secolo di grandi odi, lutti, morti e devastazioni. Il buio dello sterminio. C'è passato in mezzo. Si è ammalato di tubercolosi ed è sopravvissuto.



«Non mi attendevo questo prolungamento della vita», mormora, ma non sembra curarsene troppo. Forse non gli importa poi molto del tempo che passa, è centrato sul presente. Attende una visita della Rai slovena, lo disturba un'ernia iatale. «Oggi ha mangiato poco», dice Vera, che lo sorveglia con affetto. Il professore gusta con calma il caffè. Nel suo studio oltre ai libri - sul tavolo il suo amato Spinoza - c'è una foto di lui in divisa militare. È stato in Libia con l'esercito italiano durante la guerra e a Bengasi ha fatto l'esame di maturità. In una foto che compare nel libro “Quello che ho da dirvi”, una conversazione con alcuni giovani, pubblicato quattro anni fa da Nuova Dimensione, lo si vede, in un'altra foto coloniale, in sella a un dromedario. L'editore, Vittorio Anastasia, racconta che a un incontro il professore aveva sfoderato un baciamani di gran classe a una signora che ne era rimasta rapita. Stile d'altri tempi.



Radoslava, la moglie che assomigliava a Ingrid Bergman, lo ha lasciato una decina di anni fa. Prima di incontrarla aveva avuto degli amori che aveva trasposto sulla carta. Come quello «fuori regola», come lo chiama lui, di cui si legge in 'Oscuramento' o quello con l'infermiera di “Una primavera difficile”. Recentemente, chissà come, ha cominciato a circolare la voce che aveva intenzione di sposarsi. Alla sua età ci si può permettere tutto, però: «Ma no, un'invenzione» ha chiarito sorpreso, Pahor non può credere che giri una tale notizia.

Torniamo seri e il professore indica sul tavolo due copie di un libro appena uscito in Francia, “Et si c’était à refaire” ('Se dovessi rifare tutto') lo pubblica la stessa casa editrice che per prima ha visto nella sua testimonianza della prigionia nei campi nazisti la forza di Primo Levi. Il suo “Pélerin parmi les ombres” uscì nel 1990 e l'edizione italiana, che porta il titolo di 'Necropoli', sette anni più tardi. Questo libro-omaggio raccoglie tre inediti di Pahor e i contributi di Guy Fontaine e Claudio Magris. («Sono felice perché le sue parole sono scritte con il cuore»).



In Francia Pahor è amatissimo, tanto che gli è stata conferita la Legion d'onore. Qualche mese fa sono saliti nella sua casa incastrata tra i pastini sotto Prosecco quelli del 'Figaro' per dedicargli un reportage: «Pahor, decano della letteratura mondiale e testimone di un'Europa defunta».

Ecco, l'Europa, professore, che ne dice, lei che è stato accusato di avere in simpatia il nazionalismo, c'è futuro per un'Europa unita? «Io sono per l'identità nazionale - e la voce di Pahor vibra di orgoglio - ma è altro dal nazionalismo. Questa è stata la deriva che hanno preso i totalitarismi e di cui adesso sento il possibile ritorno. Per questo credo in una Europa federale, in cui le identità nazionali abbiamo il giusto rispetto». Il professore non si stanca di ripetere la convinzione di una vita. «Noi sloveni siamo stati costruiti dalla nostra letteratura e per un popolo che ha vissuto l'oppressione del fascismo la poesia ha rappresentato un vero e proprio nutrimento dell'anima e il collante di una identità nazionale che ci ha permesso di esistere».



Lotte politiche, il campo di concentramento nazista, la tubercolosi. Qual è stata la sua forza? «Sono profondamente religioso ma non sono credente. C'è uno spirito vitale nell'albero nell'animale e nell'uomo, anche se in gradazioni differenti. La natura è qualcosa di miracoloso che non può che essere chiamata divinità». —


 

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