Blow up restaurato, il film cult all’Ariston
A cinquant’anni dalla Palma d’oro a Cannes torna il capolavoro di Antonioni che ha influenzato il cinema contemporaneo

TRIESTE. Michelangelo Antonioni è forse l’autore che più di tutti ha influenzato il cinema contemporaneo. Si potrebbe addirittura dire, senza osare troppo, che in certa misura lo ha inventato. Libero dalla schiavitù del racconto in tre atti, contemplativo, emozionale, la sua materia è il silenzio, lo sguardo, la famosa “incomunicabilità” come sintomo dell’inquietudine e della crisi esistenziale che alberga nell’uomo borghese dopo la stagione del “boom”.
Oggi, al cinema Ariston (alle ore 16.30, 18.45 e 21), all’interno della rassegna “Il cinema ritrovato. Al cinema”, La Cappella Underground offre l’opportunità da cogliere al volo per riscoprire uno dei suoi più grandi capolavori e uno dei più grandi capolavori del cinema tout-court. Cinquant’anni dopo la Palma d’oro a Cannes, “Blow-Up”, il primo film in lingua inglese di Antonioni, ispirato al racconto “Le bave del diavolo” di Julio Cortázar e sceneggiato dallo stesso regista assieme a Tonino Guerra, torna in sala restaurato dalla Cineteca di Bologna, Istituto Luce – Cinecittà e Criterion, in collaborazione con Warner Bros. e Park Circus, con la supervisione del direttore della fotografia Luca Bigazzi.
Come ebbe modo di scrivere Callisto Cosulich lo stesso anno di uscita del film, «“Blow-Up” è «prima di tutto un grande documentario sulla Londra post-vittoriana e sulla gioventù londinese». L’ambientazione è, infatti, quella della “Swinging London” degli anni Sessanta (con tanto di apparizioni di personaggi famosi dell'epoca e attrici che incontreranno a breve la fama come Vanessa Redgrave, Jane Birkin o la modella Verushka), magnificamente esaltata dalle invenzioni cromatiche di Carlo di Palma, agitata dalle mode giovanili, la musica, la contestazione. Ma il film, “detective-story” sui generis, è soprattutto un’amara riflessione teorico-filosofica sul concetto stesso di realtà, sul corpo e sull’immagine. Sulla costruzione dell’immagine che compone la realtà, la sua frammentazione e il superamento dell’esperienza fenomenologica. Intorno a questo concetto si innesta, quasi come pretesto, un “giallo” senza omicidio, con un’indagine che mira non tanto a svelare un colpevole, ammesso che un colpevole ci sia, ammesso che una vittima ci sia, quanto a interrogarsi e ragionare su questioni più astratte. Anticipando il concetto di “post-verità” dell’era social, Antonioni rappresenta il reale come frutto della percezione soggettiva del suo protagonista, David Hemmings, fotografo, uomo “moderno” e insoddisfatto, artista intento a osservare il mondo eppure incapace di catturarne l’essenza. Un giorno, una fotografia scattata per caso in un parco rivela, ingrandita, le presunte tracce di un delitto. Forse. Le immagini non sono nitide. Ma neppure la realtà, mutevole e ambigua, lo è. Parlando del film, Antonioni spalanca volontariamente le porte a ogni possibile chiave di lettura: «“Blow-Up” - diceva - è un film che si presta a tante interpretazioni, perché la problematica cui si ispira è appunto l'apparenza della realtà. L'esperienza del protagonista non è né sentimentale né amorosa, riguarda piuttosto il suo rapporto con il mondo, con le cose che si trova di fronte. È un fotografo. Un giorno fotografa due persone al parco, un elemento di realtà che sembra reale. E lo è. Ma la realtà ha in sé un carattere di libertà che è difficile spiegare. Questo film, forse, è come lo Zen: nel momento in cui lo si spiega lo si tradisce». Il finale stesso, tra i più evocativi di sempre, con la celebre partita a tennis che alcuni mimi giocano in assenza di racchette e palline, ma di cui si può udire indistintamente l’inconfondibile suono, sancisce il prevalere dell’illusorietà e la finzione dell’arte. È il definitivo trionfo dell’inganno sulla verità.
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