Bernardo Bertolucci: «In famiglia scorreva un venticello d’arte»
TRIESTE Un padre poeta, ammirato e amato, e due figli registi, ognuno col suo percorso creativo differente ma in qualche modo contiguo. Sono i Bertolucci, Attilio, Bernardo e Giuseppe, che il documentario "Rubando bellezza" di Fulvio Wetzl, Laura Bagnoli e Danny Biancardi indaga in un'analisi poetica e famigliare che intreccia sentimenti e arte.
Il film sarà presentato in anteprima mondiale venerdì 8 luglio a ShorTS - International Film Festival, alle 21.30 al Cinema Ariston, dopo un'altra anteprima, quella del film "I cormorani" di Fabio Bobbio. Perno dell'indagine è Bernardo, il grande regista di "Ultimo tango a Parigi", "Novecento", "Piccolo Buddha", "Io ballo da sola", "The Dreamers" e Premio Oscar per "L'ultimo imperatore", autore di un cinema in qualche modo sempre personale eppure ricco di simboli, immersioni psicanalitiche, e attraversato dalle tensioni della Storia collettiva.
Intervistato dai registi del documentario, Bernardo parla del rapporto col padre e col fratello, scomparsi nel 2000 e nel 2012. Come il cineasta ha sempre riconosciuto, il padre Attilio, tra i più grandi poeti del Novecento italiano, gli ha lasciato un imprinting che però non è stato a senso unico.
E il documentario stesso, scavando alla radice della famiglia a partire dalla casa di campagna a Baccanelli, vicino Parma, dove i Bertolucci sono cresciuti, mostra una storia di influenze reciproche, triangolazioni di cuore e arte: un continuo rimandare l'uno all'altro.
La macchina da presa indaga tra gli oggetti di famiglia, le liriche del padre, i riannodamenti della memoria ma anche le testimonianze di Fabrizio Gifuni e Sonia Bergamasco che hanno lavorato col Giuseppe regista teatrale, e il critico cinematografico Morando Morandini, che nel 1964 recitò in "Prima della rivoluzione" con Bernardo.
E proprio Bernardo racconta volentieri questa trama di influenze reciproche rispondendo dalla casa di campagna dove trascorre l'estate, in cerca di nuove idee per un prossimo film, a quattro anni di distanza dall'ultimo “Io e te” tratto dall'omonimo romanzo di Niccolò Ammaniti: «In questo momento sono allegramente disperato perché sto cercando nuovi progetti, mi fanno anche qualche proposta, ma fino ad adesso non ho trovato una storia di cui innamorarmi», dice. «Ho chiesto anche a mia moglie (la regista Clare Peploe, ndr) di mettersi sotto. Già quando avevamo girato "L'assedio" lo descrivevo come una sonata a quattro mani, quasi una co-regia».
Bertolucci, cosa deve a suo padre del suo amore per il cinema? «Mio padre era stato a lungo critico cinematografico della "Gazzetta di Parma". Quando avevo 7-8 anni e abitavamo ancora a Baccanelli, vicino a Parma, spesso mio padre mi portava a vedere i film con lui, e magari ne vedevamo due insieme.
Io ero un bambino che veniva dalla campagna e andare al cinema voleva dire poi essere capace, tornando dalla banda dei miei amici di giochi, di raccontare loro i film. Vedevo western americani, film di guerra: mi piaceva molto interpretare John Wayne e farmi ammazzare alla fine del gioco per rimettere in scena quelle morti lunghissime che vedevo nei film dove si cade, ci si rialza, si cade ancora. Il mio amore per il cinema viene anche da quelle esperienze».
Nel documentario racconta di come, leggendo le liriche di suo padre, abbia imparato che la poesia viene da quello che abbiamo intorno a casa: basta guardare e la si trova. Com'è entrata questa idea nel suo modo di fare cinema? «È così: se uno sa guardare, può scoprire la poesia dove meno se lo aspetta. Ma è "Novecento" il film forse più legato a mio padre, ispirato al suo "La camera da letto".
In quella specie di romanzo famigliare mio papà raccontava anche lo sciopero del 1908 a Parma che poi in qualche modo ho messo nel film, con le mucche che piangono nelle stalle perché nessuno le munge, i padroni che giocano a mietere il grano mentre invece fanno un picnic. Il piccolo Olmo con il nonno Leo li trovano buffi, è una scena comica per loro. Poi arriva l'amichetto Alfredo, corrono e spariscono nel grano non ancora mietuto giocando al "socialista dalle tasche buche". Ecco, quell'atmosfera della campagna viene da molte cose di "La camera da letto"».
Lei, suo padre, suo fratello: come vi siete influenzati a vicenda? «Siamo stati una famiglia molto unita, avevamo bisogno di sentirci spesso e quindi era inevitabile che ci influenzassimo l'uno con l'altro. Non so quanto fosse cosciente questa influenza nel momento in cui avveniva, ma erano delle belle triangolazioni. Attilio influenzava Giuseppe e me, che ci influenzavamo a vicenda e poi riportavamo ad Attilio parte delle nostre esperienze. Mio padre aveva un modo molto aperto di accettare tutto dai figli. Tra di noi scorreva una sorta di venticello».
Lei si riconosceva nelle poesie che suo padre le ha dedicato? «Come facevo a non riconoscermi? C'è una poesia dove dice di me e di Giuseppe "rami che la pianta trattiene strettamente": la pianta era lui. La sua poesia è la prima che ho conosciuto, che ho imitato».
Nel film è la moglie Lucilla Albano a parlare di Giuseppe dicendo che si portava dietro la ricchezza ma anche il peso di avere un padre e un fratello così "ingombranti" e che, perciò, aveva scelto la strada della "marginalità consapevole"... «In un suo tentativo di affrancamento, Giuseppe cominciò anche a dipingere in modo molto speciale, tanto che un giorno Roberto Longhi, lo storico dell'arte che era stato anche allievo di mio padre, venne a casa nostra e guardando uno dei suoi quadri disse: "Giuseppe macchia proprio bene". Però dopo 4/5 anni abbandonò la pittura e cominciò a scrivere poesie. Poi, dopo una delusione amorosa, venne con me a Parma a girare "La strategia del ragno" come aiuto regista e lì il demone del cinema s'impadronì anche di lui».
Suo padre le diceva spesso: "Tu mi hai ucciso tante volte senza mai andare in prigione", riferendosi ai diversi padri che lei "uccide" nei suoi film. C'era tra di voi anche un rapporto conflittuale? «Come ci insegna Freud, un rapporto conflittuale, un rapporto edipico c'è sempre. Quando mi sono messo a fare psicanalisi ho vissuto molto i conflitti della prima infanzia e poi quelli più profondi: il risultato sono queste "uccisioni" simboliche di figure genitoriali che si ritrovano nei miei film».
Nel documentario ricorda anche il rapporto con Pier Paolo Pasolini, che quando lei aveva 15 anni la trattava già come un adulto.... «C'è una poesia di Pier Paolo che si chiama "A un ragazzo". Nelle note dice che quel ragazzo è figlio di Attilio: sono proprio io, e lui nella poesia mi racconta tutta la storia terribile di suo fratello Guido, che attendeva il treno per Spilimbergo con una rivoltella nascosta dentro un libro di Montale. Finisce con una frase: "Ah, ciò che tu vuoi sapere, giovinetto, finirà non chiesto, si perderà non detto". Ho letto questa poesia quando avevo 17/18 anni: è la prova che mi parlava come a un giovane adulto».
E pochi anni dopo vi sareste trovati sul set di "Accattone", il primo film di Pasolini... «Pasolini mi dice: "Ti piace il cinema a te? Tu sarai il mio aiuto regista". E io: "Come faccio, non l'ho mai fatto!" "E neanch'io ho mai fatto il regista!", per incoraggiarmi. Poi fu un'esperienza straordinaria. Ho assistito alla prima volta di Pasolini, quando scopriva cos'erano i primi piani, cos'era il carrello. Era come vedere nascere il cinema».
Ha detto che sta cercando un progetto del quale innamorarsi. Cosa deve avere una storia per convincerla? «È difficile dire cosa mi fa innamorare anche andando a vedere nei film, che sono abbastanza diversi l'uno dall'altro. Glielo dirò quando avrò trovato la prossima».
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Riproduzione riservata © Il Piccolo