Benvenuti nella cucina della signora Bauhaus con gli elettrodomestici da donna emancipata

Un libro che inizia… da una cucina. Che cucina, però! Quella che Ise Gropius, la “signora Bauhaus”, ovvero la ragazza che sposò Gropius, fondatore della Bauhaus, volle a Dessau. Sì, proprio nella sede della rivoluzionaria scuola d’arte e design fondata nel 1919 in Germania. Ed è stato leggendone insieme ai suoi studenti che Jana Revedin, architetto e docente all’Ecole Spéciale d’Architecture di Parigi, ha cominciato a seguire le tracce di questa donna del Novecento: così è nato “La signora Bauhaus” (Neri Pozza, traduzione di Alessandra Petrelli).
Signora Revedin, Ise nel 1925 volle, per la “casa del direttore” di Dessau, dove avrebbe abitato con Gropius, una cucina splendente e innovativa, per una “donna emancipata”. Con tutti gli elettrodomestici all’epoca ancora quasi fantascientifici, e che adesso sono in tutte le cucine. Anche questo fa parte della visione rivoluzionaria della Bauhaus?
«Sì, ed è incredibile pensare che preceda di ben due anni la “cucina di Francoforte”, progetto della viennese Margarete Schütte-Lihotzky, un’allieva di Adolf Loos, ora nella storia dell’architettura e del design. La cucina di Ise invece venne creata con l’aiuto del grande ribelle dell’architettura riformista Bruno Taut».
La Bauhaus diede spazio alle donne che immaginavano un mondo nuovo. Le tessitrici come Anni Albers, le designer come Marianne Brandt. Ma le donne architetto sono ancora poche, e lei, che insegna architettura e urbanismo, lo sa bene.
«Ci sono, però. Non importa che siano poche. Ci sono “nipoti” ribelli come Carin Smuts, Anna Heringer, Patama Roonrakwit, Rozana Montiel.... Anche per questo ho creato i Global Awards for Sustainable Architecture (sotto il patronato dell’Unesco) nel 2006. Ogni anno facciamo conoscere cinque architetti contemporanei con un’etica ecologicamente e politicamente responsabile».
Torniamo a Ise. Al suo legame appassionato, negli anni Venti, con la fotografa Irene Hecht, bella, talentuosa, di origine ungherese, anche lei coinvolta nella Bauhaus. Tanta amicizia, e poi Ise ebbe una storia con il marito di Irene?
«Ne sono rimasta stupita anch’io. Se avessi una sola domanda da fare a Ise oggi, sarebbe: “Perché?” E mi piacerebbe incontrarla, oggi, non nel passato, da me a Venezia. Possibilmente insieme a Irene Hecht».
Gropius poi, come molti geni della Bauhaus, negli anni del nazismo fuggì in America. Lì insegnò, ad Harvard; lì costruì con Ise una casa. L’ha vista?
«Oggi è una casa museo, purtroppo quasi senz’anima. Io però ho avuto l’immensa fortuna di conoscere l’unica nipote vivente di Ise, Evelyne Frank, vedere foto inedite... Non solo. Evelyne mi diede accesso ai diari, costruiti come cartoni animati, di Beate, la figlia adottiva dei Gropius (era la figlia di una sorella di Ise). Diari disegnati negli anni ’40 e ’50 che parlano più di tutte le biografie».
Lei abita a Venezia e in Carinzia. Ma a Trieste, a metà strada, è mai stata?
«Solo di sfuggita. Purtroppo è un luogo ancora quasi immaginario per me: Rilke e Duino, l’apertura immensa del porto sul mare Adriatico, il Carso e la sua bellezza ascetica, il vino del Collio… Sarei felice di poter “vivere Trieste” un giorno».
Ha appena scritto un libro su un’altra donna, o “moglie”: la nonna di suo marito, Margherita Revedin. Cosa la affascinava di lei?
«La postura modello. Nasce in condizione modestissime: durante la prima guerra mondiale si guadagna da vivere portando i giornali a Treviso. Poi sposa un nobile veneziano molto benestante, e negli anni ’20 e ’30 crea la Venezia delle arti d’avanguardia. Perderà tutto dopo la morte prematura del consorte, ma mantiene la sua dignità, la sua curiosità, il suo humour…».
L’ultima domanda è privata: sul suo nome, e sulla dedica del libro.
«Jana è il diminutivo di Tatjana, un nome di origini polacche consueto nella mia famiglia prussiana. Ma e anche il riferimento al nome di mia sorella maggiore Tanja, che morì ad appena un giorno di vita, nell’agosto del 1959. A lei dedico “La Signora Bauhaus”».
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