Basaglia, la vera storia di un’impensabile liberazione che cominciò con una filastrocca sui matti
Sabato 29 agosto con il Piccolo in edicola il libro di Peppe Dell’Acqua, Massimo Cirri ed Erika Rossi, nel quarantennale della morte di Franco Basaglia
TRIESTE «Varda quel vecio mezo disfà/ quel camina tuto imberlà/ quel xe un mato te pol star sicuro/ mi no lo vojo visavì de sicuro». È la strofa di una favola molto sui generis, che spiazza già da quel dissonante incipit: "C'era una volta la città dei matti". Una favola per raccontare una rivoluzione: niente pomposi manifesti programmatici, zero istituzionalità. Per comunicare la chiusura definitiva dei manicomi si attingeva ancora una volta allo spirito innovatore, audace e costruttivamente eversivo nato da quell'ineffabile momento storico, in una filastrocca da scandire a gran voce per le strade di Trieste, che passasse il messaggio che «il manicomio viene serrato e tutti i matti abbiam scarcerato».
Il racconto di quel cambiamento epocale messo in atto da Franco Basaglia lungo un processo duro e controverso è diventato, tra le tante cose, uno dei più eclatanti successi teatrali dell'ultimo biennio, una produzione del Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia che non ha smesso di macinare sold out lungo la sua strada, da Milano a Modena, da Torino a Ferrara. Ora, quel racconto intenso eppure lieve trasferisce su carta le emozioni del palcoscenico: "(tra parentesi) La vera storia di un'impensabile liberazione" di Peppe Dell'Acqua, Massimo Cirri ed Erika Rossi è il libro che ripercorre quell'avventura, edito da Alphabeta Verlag (pagg. 150) e in edicola con Il Piccolo sabato (al prezzo di 9 euro più quello del quotidiano) nel giorno del quarantennale della morte di Basaglia, avvenuta a San Polo a Venezia il 29 agosto 1980.
Un testo che sentiamo subito amico grazie alla sua forma fluida e confortevole, densa ma agile, che tocca tematiche complesse e dolorose trattate però con delicata levità e un brio non indifferente: forse perché Dell’Acqua è un narratore "naturale". Così lo definisce lo storico conduttore di Caterpillar, nonché psichiatra e amico: se "Peppe", che da giovane neolaureato approdato da Salerno a Trieste per vivere l'esperienza basagliana non può che essere il motore del racconto, a lui il compito di tessere la trama condendola di indovinati controcanti ironici. «Abbiamo provato a imbottigliare Dell'Acqua. Il risultato è qui» chiosa, alla sua maniera, Cirri e con questo spirito la narrazione parte, sulle note di "Tintarella di luna" di Mina diffuse nei corridoi all'Ospedale Psichiatrico di Gorizia.
È il 16 novembre 1961 e arriva il nuovo direttore. Da Padova, da dove è stato in pratica mandato via. Perché è un po' filosofo, e ha questa pazza idea che la follia sia una condizione umana esattamente al pari della ragione. Gli studi, la fenomenologia di Husserl in particolare, lo spingono a cercare una strada per riportare nel campo della psichiatria fredda e distante «qualcosa che avesse a che fare con l'umano, con la persona, col soggetto». Quando entra a Gorizia, ricorda Dell'Acqua, Basaglia si trova di fronte invece a «un mondo sospeso, un luogo di violenza», tra porte blindate, letti a rete, gabbie, cravattini, gli internati legati al letto. Gli farà dire, in seguito, che lì c'erano 650 «sacchi di tela grigia, 650 corpi» di uomini e donne divenuti invisibili.
Com'era possibile far tornare quei corpi vivi? «Era la malattia a nascondere ogni cosa - riflette "Peppe" -: nomi, storie, bisogni, emozioni non potevano più abitare quel luogo». Ecco l'idea, mutuata dall'inglese Maxwell Jones e portata per primo in Italia, della comunità terapeutica basata sull'integrazione sociale e la responsabilizzazione degli internati. Ecco lo sforzo, immane, estenuante, di parlare con tutti quei 650. Quello stare continuamente in reparto, da mattina a sera, a rispondere a tutte le richieste di aiuto, instancabilmente, a partecipare a continue riunioni, confrontandosi, e ogni volta correggere il tiro. Perché è proprio quello «stare dentro alle cose» che cambierà tutto, quel contatto continuo e presente con i pazienti, in un dialogo incessante, che farà cadere il distacco imposto fino a quel momento, la distanza, lo sguardo oggettivizzante insegnati fino ad allora nelle università, e superare per sempre quella che viene chiamata da Dell'Acqua «l'invadenza della diagnosi». È questo, allora, il suo "mettere tra parentesi" la malattia, insieme al ripensamento profondo del rapporto tra medicina e potere, con i manicomi visti come luoghi di controllo sociale e non di cura. Quel «E mi no firmo» che dice Basaglia all'ispettore che gli porge il registro coi nomi di chi durante la notte è stato legato al letto, è solo il primo gesto del cambiamento. Era appena arrivato ma la rivoluzione era già iniziata. —
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