Barbara Mazzolai la signora dei plantoidi i robot ispirati alle piante

La scienziata, tra le 25 donne geniali nel suo campo, domani a Pordenone per raccontare una tecnologia che avrà applicazioni dallo spazio alla quotidianità



Nel 2015 è rientrata nella lista delle 25 donne geniali della robotica grazie a una ricerca che potrebbe essere davvero rivoluzionaria. Laureata in Biologia, Barbara Mazzolai l’ha declinata poi all’ingegneria robotica. La scienziata sarà a Pordenone domani in occasione della rassegna “L’uomo al centro”, promossa da Cgn in sinergia con Fondazione Pordenonelegge. Mazzolai è indubbiamente tra le studiose che hanno rimesso al centro l’uomo, tentando di salvaguardarne l’ambiente. L’ha fatto osservando la natura e le sue straordinarie capacità di conservazione. Da qui l’idea di ideare robot procedendo per imitazione, come è ben espresso nel suo libro appena uscito “La natura geniale. Come e perché le piante cambieranno (e salveranno) il pianeta” (Longanesi, pagg. 192, euro 18,00). Alla base ci sono scoperte piuttosto clamorose, come l’elettricità che può produrre una foglia. La robotica quindi si ispira a certe caratteristiche vegetali. Una ricerca ardita. La strada è ancora molto lunga? «Sì, ci vorranno ancora degli anni per concludere alcuni esperimenti», dice.

Qual è il tipo di robotica nuova che si prospetta?

«Io mi occupo di questa nuova robotica ispirata alla natura, che può aprire nuovi scenari applicativi. La robotica è già una realtà, soprattutto nelle industrie. Però possiamo osservare dei contesti dove i robot ancora non ci sono oppure sono ancora molto semplici, non autonomi. Basti pensare a quelli che si muovono nello spazio o negli abissi, utilissimi, ma ancora limitati mentre potremmo utilizzarli in contesti quotidiani. Potrebbero davvero diventare delle macchine al servizio dell’uomo in ambiti non ancora coperti dai robot, come quello del monitoraggio ambientale. Ci darebbero molte informazioni sulla qualità del suolo e dell’aria, quindi ci sarebbe un impatto diretto sulla salute, oltre che permettere una riduzione dei costi».

A quanto pare, rispetto alla scienza, la natura rimane la star, mi riferisco alla biomimetica che poggia le sue basi sulla biologia. Ce la spiega?

«La biomimetica storicamente non è una novità, Leonardo da Vinci ne è considerato il padre. È una disciplina che guarda alla natura per risolvere problemi reali, sia tecnologici che architettonici. Il concetto è di capire qual è il funzionamento dei meccanismi naturali. Per esempio vogliamo imitare il volo degli uccelli piuttosto che la crescita delle piante, ecco che allora dobbiamo capire il principio che sta alla base di quel tipo di fenomeno. Dopo di che dobbiamo tradurlo cercando di semplificarlo. La cosa importante è che non sia una semplice copia, anche perché dal punto di vista tecnologico non tutto ci serve di ciò che è naturale. Innanzitutto quindi capire il fenomeno e capire a cosa ci serve».

Che cosa sono i plantoidi?

«Sono robot di nuova generazione che si ispirano alle piante. La biomimetica guarda a modelli umani o animali o batterici. Non erano mai state prese in considerazione le piante, perché nelle piante non vediamo le caratteristiche che servono per fare dei robot: il movimento, le capacità sensoriali, magari un certo livello di intelligenza ed autonomia. In realtà, invece, queste caratteristiche ci sono. Quindi la rivoluzione dei plantoidi è quella di dire: guardate che i vegetali si muovono, percepiscono l’ambiente, comunicano. Possiamo quindi prenderli in considerazione per ideare i nuovi robot».

Tra le altre cose potrebbero rivelarsi utili non solo per la medicina, ma addirittura per superare gli ostacoli nel campo dell’esplorazione spaziale.

«Esatto. Il plantoide per esempio è nato per uno studio di fattibilità finanziato dall’Agenzia Spaziale Europea. L’interesse per le piante era proprio per la capacità di esplorazione delle radici, ma anche per le abilità di ancoraggio. Le radici si ancorano nel terreno e questo è fondamentale per dar vita alla pianta. Il problema dell’ancoraggio spaziale – a causa per esempio delle tempeste – è una questione ancora aperta. Studiamo quindi le strategie di ancoraggio delle piante rampicanti, ovviamente adattandole a un ambiente in cui la gravità è poco percepita».

Si auspica una maggiore presenza dei robot e umanoidi lì dove gli ambienti sono mutevoli e cioè pericolosi per l’uomo. Cosa ne pensa invece dei robot usati sul fronte dell’intrattenimento, come i sex robot?

«Sui sex robot naturalmente dipende dai gusti personali di ognuno. È vero però che i robot possono essere molto efficaci per l’intrattenimento. Dipende da come vengono percepiti, è un ambito in cui si nota la differenza culturale tra i popoli. Per esempio in Giappone è quasi normale poter interagire con un robot. Paro, la foca robotica con cui vengono fatti studi sugli anziani, ha effetti molto positivi, soprattutto su chi soffre di demenza senile o depressione. Interagendo con questi robot i medici hanno registrato miglioramenti significativi. La questione è sempre come il robot viene vissuto. Personalmente credo che un po’ ci si affezioni, anche se è una macchina, con misura, senza esagerare. Quando possedevo Aibo, il cane robot, un minimo di legame si era stabilito».

Niente di stravagante dal momento che ci affezioniamo anche agli oggetti…

«Infatti. Non credo sia appunto una reazione così fuori dagli schemi. Chiamarla empatia sarebbe esagerato, ma un certo legame si stabilisce anche con i robot».

Il suo gruppo di ricerca ha fatto una scoperta rivoluzionaria, ovvero che le piante possono produrre elettricità.

«Lo abbiamo scoperto per caso, nell’occasione di un progetto finanziato dalla Regione Toscana per realizzare delle foglie artificiali che vibrando, e quindi toccandosi, producono energia grazie al vento. Si tratta di fenomeni triboelettrici, cioè l’elettrificazione da contatto che è quello che proviamo anche noi toccando alcune cose nei giorni più secchi. Alcuni materiali creano più cariche quando si toccano. Ci sono molte piante nei nostri laboratori, quindi abbiamo pensato di osservare se si produceva lo stesso effetto con le foglie naturali, toccandole con materiali diversi. Si creano infatti delle cariche. Se tastate con plastiche soffici, attaccando degli elettrodi alla pianta e alla lampadina, quest’ultima si accende».

Secondo lei tra quanto tempo sarà davvero possibile, in modo diffuso e collettivo, sfruttare i volt generati da una foglia?

«Stiamo provando a portare questi esperimenti all’aperto naturalmente. Ci sono ancora vari problemi da risolvere. Il primo è l’intermittenza. Il secondo è l’umidità delle foglie che diminuisce l’effetto delle cariche. Stiamo cercando di risolvere questi ostacoli, grazie anche al progetto finanziato dalla Commissione Europea GrowBot, sulle caratteristiche sfruttabili nelle piante rampicanti, sempre con l’obiettivo di ideare dei robot. Con noi se ne occupa anche una ditta spagnola, loro si concentrano sul suolo, noi sulla parte aerea del vegetale. Crediamo di poter risolvere questi problemi in quattro anni e quindi arrivare a una vera e propria applicazione dei robot nell’ambiente».



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