Azzurro poesia: qui Trieste, a voi Pietroburgo. Le affinità “anarchiche” di Umberto e Sergej

TRIESTE “Trieste (cioè la mia poesia) era azzurra”. Ma che cos’è questo azzurro che torna sempre nei versi di Saba? È il mare che si apre di colpo dopo le curve nel Carso, è il vento che tira forte nei giorni di Bora, è la scontrosa spensieratezza, è un essere stranieri nella propria lingua. È una certa aria dell’est. Per questo continuo a leggere Saba? mi chiedo. Per trovarci cosa?
Per capirlo devo fare un giro largo, prendendolo alla lontana. Devo farmi guidare da quell’aria dell’est che soffia tra i suoi versi e spinge ancora più a est, oltre confine, fino alla Russia di inizio Novecento. Da dove mi arriva questa suggestione? Cosa c’entra con Saba?
Trieste, penso. Se è vero che ogni città ha una gemella nel mondo, Trieste ha la sua in Pietroburgo. Uguale è la luce che le illumina, marina e ventosa, ugualmente celebrata dagli autori delle due città: i bagliori di Piter, l’azzurro degli occhi da ragazzaccio di Trieste. La Neva e il Golfo.
Trieste è una città dell’entroterra proprio come Pietroburgo, scriveva Gillo Dorfles, e entrambe si sono guadagnate una via al mare. Uguale è il respiro dei loro spazi: l’immensa piazza del Palazzo davanti all’Ermitage e piazza Unità, prolungata sul mare. Gli edifici neoclassici dall’identico biancore. Tutto ciò che di interessante è accaduto nella letteratura russa a inizio Novecento è accaduto a Pietroburgo, e non importa se poeti e scrittori erano nati altrove, perché lì accorrevano, e non a Mosca, luogo del potere e delle decisioni. Lo stesso accadeva a Trieste dove, per un periodo breve a inizio secolo, nei caffè si incrociarono scrittori con l’alibi dell’impiego fisso, poeti inquieti e giovanissimi, l’irlandese che rubava la lingua nei bordelli della città vecchia, letterati che non scrivevano nulla ma avevano occhio per i libri migliori, quello che per primo in Italia maneggiava la psicanalisi e li aveva tutti addosso. E poi sono entrambe “città di carta”.
Nel dettaglio. C’è un poeta che più di ogni altro fa eco alla poetica di Saba, per stile, per colori, per biografia, ed è un poeta russo. Sergéj Aleksándrovič Esenin. Nessun artificio stilistico, nessuno sperimentalismo, ma l’uso di parole trite nel tentativo di fare della poesia un tutt’uno con la vita. Ma non è solo questo. Scrive Saba alla figlia Linuccia il 25 marzo 1947: “La contemporaneità dà quello che può e l’Italia non ha mai capito Trieste. Gli italiani sono neri o rossi (più neri che rossi) e Trieste (cioè la mia poesia) era azzurra”.
Di nuovo, cos’è per Saba l’azzurro della sua poesia? Un rifiuto di piegare l’arte al megafono dell’impegno civile, una traccia d’ingenuità e la volontà che la poesia sia chiara, limpida. Allo stesso modo nell’opera di Esenin torna la chiara semplicità e tra le sue prime raccolte spicca il titolo “Azzurrità”.
Questa affinità suggestiva tra i testi dei due poeti trova un sostegno nelle loro biografie. Entrambi allontanati molto piccoli dai genitori: Esenin cresce con i nonni, Saba con la celebrata balia slovena. Entrambi lasciano la città dove sono nati, perché la loro poesia prenda un po’ di respiro e si mescoli ai luoghi dove tutto sembrava accadere. Eppure i loro versi non si staccano dai luoghi originari. Esenin andrà prima a Mosca, dove trova lavoro come correttore di bozze, e poi a Pietroburgo dove viene riconosciuto come poeta dai poeti e dai lettori, ma continuerà a sentirsi un estraneo e a celebrare la campagna russa, idealizzandola senza mai ritornarci.
Saba periodicamente se ne andrà da Trieste, sentendosi ovunque uno “di un’altra specie”, e senza mai smettere di provare un lancinante bisogno di tornare. E infine la più tragica delle affinità, entrambi soffrirono di nervi e passarono del tempo della loro vita in un ospedale psichiatrico.
A rilanciare il gioco di specchi c’è poi un testo. Esistono pochissime pagine, in gran parte inedite, che testimoniano l’interesse di Saba per la traduzione. Iniziò a tradurre il Macbeth, ma non lo portò mai a termine. Volle invece pubblicare la sua traduzione di “Lettera alla madre” di Esenin, a testimonianza di un sentimento di affinità che già il poeta triestino avvertiva.
E da ultimo c’è un dettaglio decisivo comune ai due poeti: il loro peculiare modo di guardare alla letteratura e al proprio ruolo di artisti. Allo scoppiare della rivoluzione bolscevica, molti poeti se ne fanno cantori, celebrando nei propri versi i grandi ideali che animano le strade. Esenin invece – autodefinitosi teppista urbano – incarna e incarnerà sempre un certo individualismo, la necessità di raccontare i propri sentimenti e le proprie esperienze, più che l’universale rappresentazione di un popolo. Nei suoi versi troviamo il dolore, la speranza, la malinconia che hanno al centro il sentire individuale del poeta, non c’è spazio per nessuna ideologia.
Allo stesso modo Saba. In un biglietto conservato negli archivi del Gabinetto Vieusseux, nel 19 dicembre 1952 scrive all’amico Mario Puccini qualcosa di molto simile a una dichiarazione di poetica: “Il poeta, se è poeta davvero, è un bambino individualista, un anarchico, un selvaggio: una cosa insomma da essere presa e messa (se possibile senza inutili e angosciosi processi) al muro”.
Perché leggere Saba oggi? Perché ci ricorda che i versi migliori, e quindi le migliori mappe per orientarci nei celati territori dell’animo umano, nascono da un’adesione rischiosa alla vita, da un’immaginazione che tende all’altrove, da una lingua resa semplice dall’irriducibile estraneità.
E dalla capacità di ospitare in noi tutto ciò che è diverso, sconosciuto, inquieto, ciò che non ci pacifica mai. E la letteratura ci insegna a trovare per tutto questo parole che nessuno osa, le più antiche, le più difficili. —
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