Antonella Boralevi: «Vi dico come superare i rimpianti»

La scrittrice presenta domani a Lignano “La locanda delle occasioni perdute” mentre a Pordenonelegge debutterà con il nuovo romanzo “Gli uomini e l’amore”
Di Annalisa Perini

Pensieri che si incontrano e prendono vita, per dimostrare che la materia dei sogni può trasformarsi in realtà. Mirella Sforza è una donna come tante, si avvicina ai 50 anni, con mille rimpianti, non è contenta, ma si sente troppo debole per modificare il corso della sua esistenza. Tutto inizia a cambiare, però, allorché trova la forza dentro di sé di cercare, a Parigi, “La locanda delle occasioni perdute”. E le occasioni perdute sono persone. Una storia dalle atmosfere magiche, un’avventura di cambiamento e rinascita sono al centro del romanzo della scrittrice Antonella Boralevi.

L’autrice ne parlerà domani a Lignano, al Palapineta, alle 18.30, in uno degli eventi proposti nella manifestazione “Incontri con l’autore e con il vino” promossi dall’Associazione Lignano nel Terzo Millennio e curati da Alberto Garlini. L’incontro, a ingresso libero e condotto dal giornalista Gian Paolo Polesini, sarà accompagnato dai vini dell’azienda Borgo dei Sapori selezionati dall’enologo Giovanni Munisso.

Il 10 settembre, l’autrice di romanzi, racconti, saggi e sceneggiature, si prepara ad uscire con un nuovo libro, “Gli uomini e l’amore” (Bonpiani) che sarà presentato in anteprima a Pordenonelegge il 18 settembre. Intanto Antonella Boralevi parla della “Locanda delle occasioni perdute” (Rizzoli), romanzo che, dice, «è nato da un personale bisogno» e che, tra le tante edizioni all’estero, ne avrà una in tedesco per l’editore Bertelsmann.

«Noi donne – spiega - indipendentemente dall’età, tendiamo a riflettere, facciamo la nostra vita, ma ci pensiamo anche, rimuginiamo continuamente sui nostri perché, i nostri se. Anche ragazze di vent’anni mi scrivono di avere già dei rimpianti. C’è stato un momento, anche per me, in cui ero troppo affacciata sul passato, ma con ciò che sta indietro dobbiamo fare pace, e vivere adesso, e il futuro. Questo romanzo mi ha cambiato la vita perché mi ha insegnato a superare i rimpianti, e ho sperimentato con emozione quanto “lavori” molto anche sugli altri. Mette nelle condizioni, attraverso la storia, di entrare a un livello inconscio, di ritrovare dei nodi che stanno lì, e fanno male, e superarli».

L’idea centrale del romanzo qual è?

«Che a Parigi, in un posto segreto, nascosto tra le stradine della città medioevale, nella misteriosa Rue Thérèse - che esiste davvero, dietro il Louvre, e difficile da trovare - vi sia uno stranissimo ristorante, dove un cameriere altrettanto misterioso ti mette tra le mani un menu, diverso da tutti gli altri. Ti sembra pesante, è di carta pergamena e di cuoio antico. In realtà è leggerissimo, ma quando lo apri è un qualcosa di mai visto prima, non elenca portate da scegliere, ma occasioni perdute. E hai la possibilità di evocarle, di sceglierne una e di cambiare il tuo passato. Il lettore si immedesima nella storia di Mirella, e ha l’impressione di muoversi davvero anche tra i luoghi descritti. Quando arriva alla fine della lettura effettivamente, mi dicono, si sente cambiato».

Perché ha scelto un’ambientazione parigina?

«Parigi è una città in cui ho studiato, vissuto, e insieme ad altre, come Milano, Firenze, Roma, New York, mi è profondamente affine. L’ispirazione è nata al Café de Flore, presente anche nel romanzo. Ricordo esattamente il momento in cui, leggendo il menu, ho pensato: “E se invece di tutte queste prelibatezze racchiudesse l’elenco delle occasioni perdute della mia vita?”. Ho seguito io stessa questa fascinazione».

Mirella le somiglia?

«No, Mirella non mi somiglia, ma quando scrivi qualsiasi romanzo tu sei tutti i tuoi personaggi, la protagonista, suo padre, sua madre, il suo datore di lavoro, sei tutte le persone che fai agire. Parigi è una città magica, dove tutto può succedere, e la vicenda che racconto non poteva che svolgersi lì. Credo che ognuno di noi porti scritto nell’anima un paesaggio, che può essere in mezzo alla natura, quanto la strada di una città. Ha sempre dialogato moltissimo con le persone, già dalle pagine dei femminili».

Negli anni ha visto cambiare le loro storie, le loro domande, il loro modo di porsi?

«Ho una formazione da filosofo del linguaggio, la scrittura racconta anche quello che sta dietro, profonde emozioni. Sappiamo tutto, quasi tutti: ciò che dobbiamo fare, e perché, cosa può renderci felici o ci sta facendo del male. Non possiamo non saperlo, perché siamo destinati alla gioia, solo che queste informazioni così fondamentali tendono a rimanere in sottotraccia, sepolte dentro di noi, anche per la paura di soffrire. Dieci, quindici anni fa le persone mi scrivevano tre, quattro pagine facendo dei racconti dettagliatissimi. Adesso, invece, tendono a raccontarsi in dieci righe. Dipende sicuramente dal fatto che ormai siamo abituati ai social network e agli sms, ma vi leggo anche una scarsa autostima, come se chi scrive pensasse che le sue emozioni siano dei dettagli che non meritano di essere raccontati, e anche una maggiore sfiducia nel futuro e nelle proprie possibilità di essere felici. Ma è come andare dal medico e non raccontare i propri sintomi, neanche a se stessi».

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