“Anonimo veneziano” il ritorno al privato dopo la contestazione

Riedito il libro di Giuseppe Berto ispirato al film insieme a “Love Story”, entrambi bestseller del 1970

Pochi sanno che fu il film “Anonimo veneziano”, proverbiale melodrammone campione d’incassi del 1970, interpretato da Florinda Bolkan e Tony Musante e diretto da Enrico Maria Salerno (all’esordio come regista), a generare l’omonimo romanzo breve di Giuseppe Berto (che del film fu dialoghista e cosceneggiatore). Al contrario del solito, fu quindi il film (massacrato dalla critica) a ispirare il libro (lodatissimo invece). Che ora è appena tornato alle stampe (Neri Pozza Editore, pagg. 112, euro 15) con una prefazione di Cesare De Michelis. Il quale ricorda quanto questo testo, iniziato da Berto per ragioni “gastronomiche”, come gli accadeva quando lavorava per il cinema, coinvolse a tal punto lo scrittore di Mogliano Veneto da lavorarci per anni, realizzando “un piccolo capolavoro”, uno dei suoi migliori romanzi.

Tuttavia, se citiamo “Anonimo veneziano”, tutti ricordano non il libro, ma la lunga passeggiata cartolinesca di Bolkan e Musante in una Venezia uggiosa, all’epoca ancora scossa dall’”acqua granda” del 1966, cornice perfetta per un’indimenticabile atmosfera patetica, dove la condizione moribonda di un singolo (Musante) era in sintonia con quella decadente di una città. Chi infatti prende oggi in mano il romanzo di Giuseppe Berto e lo sfoglia, subito lo trova sovraccarico di immagini e musica (il mitico adagio del Concerto in re minore per archi e oboe di Alessandro Marcello, riletto da Stelvio Cipriani, che taglia il respiro per il malinconico fascino) e neppure si accorge che i dialoghi non sono gli stessi.

Prendiamo l’incipit del film, con l’incontro alla stazione di Venezia. Musante attende il treno che riporta da lui dopo anni la Bolkan, antica fiamma di quand’era studente. Ma non sappiamo ancora nulla dei due. Lei scende per ultima al binario 6. “Grazie d’essere venuta”, dice lui. “Me l’ha consigliato l’avvocato”, la freddissima risposta di lei. Va ricordato che all’epoca, oltre a Venezia e alla malattia incurabile di Musante (che scopriamo al trentesimo minuto), uno dei jolly del film era la famiglia messa in discussione attraverso la condizione del personaggio della Bolkan, donna separata senza diritti sui suoi stessi figli. Il neoregista Salerno voleva toccare il tema caldo del divorzio, la cui contestata legge sarebbe entrata in vigore in Italia nel dicembre 1970, solo tre mesi dopo l’uscita del film. Invece nel libro di Berto, che fu pubblicato da Rizzoli a inizio 1971, il primo dialogo è più romantico, sfumato e ambiguo: “Grazie che sei venuta”, dice lui. “Potevo farne a meno?”, dice lei che “rinunciando a capire – osserva il narratore - aveva distolto i suoi occhi”.

Ma al di là di certe differenze di espressioni e di toni, ciò che colpisce nell’”Anonimo veneziano” cartaceo di Berto è che la sua letteratura sembra essersi nutrita di cinema, se non proprio dello stesso film di Salerno. Sembra scritto con gli occhi e per gli occhi. Non lettura solo mentale, ma immagine fisica e sinestetica da vedere e ascoltare. Il romanzo comincia così, inchiodando il lettore a un ruolo da spettatore: “Sfumata in un residuo di nebbia che non ce la faceva né a dissiparsi né a diventare pioggia, un po’ disfatta da un torpido scirocco più atmosfera che vento, assopita in un passato di grandezza e splendore e sicuramente d’immodestia confinante col peccato, la città era piena di attutiti rumori, di odori stagnanti nel culmine di una marea pigra”.

Questa simbiosi fra cinema e letteratura si può spiegare con la nascita del soggetto di “Anonimo veneziano”, che avvenne nel grembo dell’immagine cinematografica di Venezia. Era stato lo stesso Enrico Maria Salerno a proporre l’argomento a Berto nel 1966, chiedendogli di scrivere i dialoghi da cui l’attore voleva trarre il suo primo film. Salerno aveva avuto l’idea per la commozione dovuta alla morte di un amico, e dopo tre giorni di raccoglimento e riflessione passati a Venezia. Si rivolse a Berto pensando probabilmente più all’autore de “Il male oscuro”, che a quello de “La cosa buffa”. Lo scrittore iniziò a stendere i dialoghi durante un lungo soggiorno a Cortina d’Ampezzo, e si appassionò sempre più a questa vicenda lagunare di amore e morte, sentendola prima congeniale e poi profondamente sua. L’amicizia di Berto con l’attore-regista si cementò durante la stesura e le lunghe vicissitudini produttive del progetto cinematografico. Lo scrittore rimise anche mano ai dialoghi, adattandoli ai due attori protagonisti più giovani dei personaggi iniziali, Bolkan e Musante, diventati da poco divi dopo il successo di “Metti, una sera a cena” (1969) di Patroni Griffi. Per poi alla fine scrivere un romanzo che viveva del film, ma che andava anche oltre. Che Berto avrebbe continuato ad arricchire, tanto da trarne un testo teatrale che nel 1976 sarebbe arrivato con successo sui palcoscenici di Londra.

Ma al di là dell’interesse per la riscoperta di un piccolo classico della nostra letteratura del ‘900, quale può essere oggi il significato più generale della riproposta di “Anonimo veneziano”? Lo stesso significato, probabilmente, che ebbe l’uscita del film nel 1970, nel postsessantotto, che riportò un successo inaspettato, materializzato in un incasso di due miliardi e 804 milioni di lire. Un film che fu anche un atto d’amore per Venezia, e che ne rilanciò il mito romantico. All’epoca, dopo anni di cinema “contro”, politico e antiborghese, “Anonimo veneziano” sancì, forse inconsciamente, l’inizio della reazione all’impegno, e rappresentò il simbolo del ritorno al sentimento e al “privato” nel cinema e nella società (come avvenne con i mélo di Raffaello Matarazzo dopo il Neorealismo). Nel settembre 1970 fu “Anonimo veneziano”, infatti, l’apripista del neofilone lacrimoso (“larmoyant”) che anticipò il fenomeno mondiale di “Love Story”. Stiamo parlando sia del film di Arthur Hiller con Ryan O’Neal ed Ali MacGraw, uscito nel dicembre 1970, sia del romanzo di Erich Segal che ne è alla base, e che neanche a farlo apposta pure viene ripubblicato oggi (Sperling & Kupfer, pagg. 228, euro 15.90). E il cinefilone mélo fece tendenza in Italia a inizio anni ’70, dal cinema d’autore (l’emblematico ”Morte a Venezia”, 1971, di Luchino Visconti) a titoli da fotoromanzo come “L’ultima neve di primavera”, “Bianchi cavalli d’agosto” o “L’ultimo giorno di scuola prima delle vacanze di Natale”.

Se cinquant’anni fa, quindi, dopo anni rivoluzionari, ci fu un ritorno di fiamma al privato e al dolore atavico, ecco che anche oggi, in piena ricorrenza del mezzo secolo del Sessantotto, può essere comprensibile riscoprire le storie (“Anonimo veneziano” e “Love Story”), che in Italia e nel mondo divennero i simboli, forse inconsapevoli, di una realtà diversa da quel movimento (il film di Salerno ebbe ovunque un successo travolgente, in Francia col titolo “Adieu à Venise”). Anche perché non mancano oggi nelle sale gli esempi simili. In Italia è una vera sorpresa il successo de “Il sole a mezzanotte”, love story fra una ragazza cieca e il vicino coetaneo che è secondo solo a Spielberg al box office. E nei mesi scorsi è stato un successo mondiale, premiato con l’Oscar, “Chiamami col tuo nome”, la contrastata storia d’amore di Guadagnino, nostalgica, internazionale, ma di ambientazione italiana come “Anonimo veneziano”, dove - pur con altra qualità e su un diverso piano - il tema dell’omosessualità aggiorna quello del divorzio.

Tuttavia, curiosamente, “Anonimo veneziano” e “Love Story” ebbero nella realtà un sorprendente happy-end, perché i due attori “sopravvissuti” delle luttuose vicende parallele, la Bolkan e Ryan O’Neal, vissero poi a loro volta una breve storia d’amore.

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