Anita Kravos: "Nelle giornate fredde e luminose d’inverno il mare è un palcoscenico della vita in bilico"

Il Teatro all'Avogaria, poi l’École des Maîtres, l'Accademia Teatrale Russa a Mosca e quindi Roma. Ma Trieste rimane il porto sicuro dove tornare pensando ai versi di Rilke e all’intreccio di culture
Anita Kravos
Anita Kravos

La grande bellezza di questa città? Per definirla Anita Kravos prende in prestito le parole di Angelo Ara e Claudio Magris e cita “Trieste, un’identità di frontiera” dove si legge che “questo luogo, forse più di altri, è letteratura, è la sua cultura”. «Testo - sostiene l’attrice - che ha il pregio di esprimere e fissare con chiarezza la peculiarità triestina, ciò che chiunque, anche senza saperlo esprimere a parole, è in grado di sentire vivendola o visitandola, passeggiando per le sue vie, guardandone gli edifici e i monumenti, ascoltandone le voci. Ossia la vitale compresenza di elementi eterogenei, molteplici, contraddittori, la vocazione plurinazionale, qualcosa di irriducibile a un’identità unitaria e definita una volta per tutte”.

«Trieste - prosegue - non è solo il comodo stereotipo della Mitteleuropa e dell’incontro di popoli ed etnie, ma ha vissuto anche aspri contrasti fra le diverse tradizioni culturali che la caratterizzano, come le tragiche vicende legate al confine orientale, nello scontro tra la cultura slava e quella italiana, il cui dialogo era invece auspicato nelle pagine de “Il mio Carso” di Scipio Slataper, di cui Marko Kravos, cugino di mia madre, ha curato la traduzione bilingue “Il mio carso/Moj Kras” nel 2015. Forse proprio per questa sua difficoltà nel definirsi o magari per via della sua posizione nell’impero asburgico, Trieste, crogiolo e crocevia irrisolto di culture, non può che conservare la traccia di quello che inevitabilmente fu: il centro di fioritura di una grande poesia e letteratura che racconta la crisi dell’individuo contemporaneo, con la poesia di Saba, con i romanzi di Svevo sulla decadenza del soggetto».

Facile intuire che il legame dell’attrice giuliano-isontina con il territorio è profondo, così com’è vasta la sua conoscenza delle spinte culturali che da secoli lo attraversano e lo scuotono. Nata a Trieste in una giornata di primavera nell’aprile del 1974 – «cascate di glicine all’uscita del Burlo Garofalo, così raccontava mia mamma» – Anita Kravos è una delle interpreti più generose della sua generazione, attrice e persona al tempo stesso brillante e discreta. «I miei genitori abitavano nella zona di San Giovanni, altri parenti in quelle casette lontano dai palazzoni, al capolinea della linea 6. Il fratello di mio nonno materno, Josip Kravos, era un sarto e un letterato sloveno. Suo figlio Marko è scrittore e poeta, traduttore di molta poesia europea verso la lingua slovena».

Da Trieste a Gorizia, al seguito del papà carabiniere, Anita cresce in una famiglia “multiculturale” dove si parla correntemente italiano e sloveno, ma anche tedesco, russo, inglese e francese. La sua passione per il teatro risale al liceo, ma si intensifica durante gli studi universitari a Venezia, dove interpreta ruoli della commedia dell'Arte al Teatro all'Avogaria. Da lì in poi la strada è segnata: l’École des Maîtres, l'Accademia Teatrale Russa a Mosca e poi Roma, dove si stabilisce con l’inizio del nuovo Millennio per avviare la sua carriera nel cinema che l’ha portata a lavorare con tanti registi dell’industria italiana. Eppure Trieste resta sempre nel cuore, un porto sicuro a cui tornare. «I versi che mi vengono in mente quando mi trovo nei paraggi appartengono a Rilke, a “Il libro della povertà e della morte”, quando il poeta scrive che “noi siamo solo la buccia e la foglia. La grande morte che ognuno ha in sé è il frutto attorno a cui ruota ogni cosa”». «Rifletto su Rilke - continua - mossa da un profondo sentimento della precarietà dell’esistenza. Siamo semplicemente infondati, radicati a nulla, anzi perennemente esposti e affacciati sul margine del vuoto: vivere significa ignorare il come, il perché e il quando della propria esistenza; perché qualcuno nasce - e dunque perché muore - è il mistero indicibile che si sottrae a ogni parola e a ogni conoscenza. Quando Rilke dice che siamo solo la buccia e la foglia, in altre parole afferma che il nocciolo non ci appartiene».

«Ci sono alcuni scorci della città - prosegue - da cui mi piace particolarmente guardarla, perché permettono di coglierne aspetti, geografici e sociali, che a mio avviso ne rivelano l’essenza, il suo passato e la sua vocazione di città commerciale, di grande emporio, luogo vitale di incontri, di partenze e di arrivi. Una città di mercanti, di armatori, di attività, di magazzini, di speculazione e di arricchimento, e dunque luogo di vita mondana e di gioiosa circolazione di granaglie, di legname, di caffè, ma anche di idee. Quando giravamo “Rosa” di Katja Colja soggiornavamo sulle rive, non lontano dal mio punto di osservazione preferito della città, vicino al museo Revoltella, dove si addensano gli alberi delle navi. Da lì, nelle giornate fredde e luminose d’inverno, il mare si perde in lontananza verso est e invita a immaginare, come la promessa di futuri approdi, di futuri incontri. E proprio l’incontro e l’Istria sono i temi di un racconto a cui lego le suggestioni di questo mio luogo triestino, un racconto che – è stato detto – appartiene alle pagine più liriche e intense dell’intera letteratura europea del Novecento, “L’isola”, di Giani Stuparich».

In un’isola che è reale, ma allo stesso tempo metaforica, sospesa nello spazio e nel tempo, Stuparich descrive l’incontro tra un padre ormai destinato a una rapida fine e suo figlio, che raccoglie l’invito del padre a rivedere assieme per l’ultima volta l’isola patria. «Anche qui - conitnua Anita Kravos - riemerge la riflessione sugli eterni nodi dell’esistenza: il passare del tempo e il declinare di tutto ciò che vive, accompagnati dal patetismo della nostalgia, che in fin dei conti è il profumo particolare del tempo che trascorre. Di Stuparich, sullo stesso livello e sullo stesso struggente tenore potrei parlare anche del racconto “Un anno di scuola”, da cui il regista triestino Franco Giraldi trasse un film tv molto ispirato, che io vidi riproposto dal cinema Ariston qualche anno fa, quando vi presentai “Come L'ombra” di Marina Spada. Anche se di fronte alle barche e alle vele è un’altra la lettura che ho in mente, un romanzo di Pier Antonio Quarantotti Gambini, “L’onda dell’incrociatore”. Ancora una storia di mare, di vento e di barche. Ma pure la descrizione, ambientata negli anni Trenta del Novecento, di una straniata umanità, una sorta di neorealismo triestino in cui l’ingresso degli adolescenti al mondo adulto è accompagnato dai turbamenti, dalle ambiguità e dalle curiosità tipiche del momento in cui la sessualità irrompe nella vita di un individuo». —

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