Anita Ekberg cammina nella fontana di Trevi gambe statuarie che paralizzano i carabinieri

Da oggi al Magazzino delle idee le fotografie di Praturlon, Secchiaroli, Bachmann e Ronald sui set di “La dolce vita” e “8 1/2” di Fellini 

il percorso



«Mi chiamò Fellini». Con questa breve frase il fotografo di radici pordenonesi Pierluigi Praturlon ricorda l’inizio della fase più importante della sua avventura professionale a Cinecittà, quando il più celebrato regista italiano lo volle accanto a sé nelle riprese de “La dolce vita”. Alle immagini realizzate sul set di questo film da Praturlon e a quelle che il collega Tazio Secchiaroli scattò durante le riprese di “8 1/2”, è dedicata la mostra che si apre oggi al Magazzino delle idee di Trieste. Accanto ai loro, ci sono gli scatti di Gideon Bachmann, cosmopolita e poliedrico, critico cinematografico, fotografo amico di Pasolini e Fellini e di Paul Ronald, fra i più importanti fotografi di scena del cinema italiano, che, chiamato dallo stesso Fellini sul set di 8½, ha lasciato attraverso i suoi scatti a colori una testimonianza eccezionale di scene e personaggi che altrimenti conosceremmo solo attraverso il bianco e nero della pellicola.

Sono 120 le fotografie scelte dal curatore Guido Comis per raccontare, oltre al contenuto delle due famose pellicole, anche l’inesauribile creatività di Federico Fellini, i suoi modelli di eleganza, gusto e stile che influenzarono un pubblico di gran lunga più numeroso di quello che entrò nelle sale cinematografiche in cui si proiettavano i due film.

le polemiche

“La dolce vita” è del 1960, 8 1\2 del 1963 e le cronache ricordano che i due film oltre a entusiasti consensi scatenarono polemiche roventi. “La dolce vita” innescò l’interrogazione parlamentare di un deputato missino che stigmatizzò l’opera di Fellini, sostenendo che il film rappresentava «una offesa palese alle virtù e alla probità della popolazione romana e la banale canzonatura dell’alta missione di Roma quale centro del cattolicesimo e di antiche civiltà». L’Osservatore Romano, il quotidiano della Santa Sede, pubblicò un corsivo senza firma dal titolo “Basta” in cui tra l’altro si leggeva «il vizio ostentato sugli schermi è incentivo al male, al delitto, ne è propaganda». Le code interminabili ai botteghini in cui si proiettava il film spensero il fuoco degli anatemi e sottolinearono quanto l’Italia e gli italiani fossero cambiati. Al centro delle polemiche vi furono due scene del film. In primo luogo la riproposizione sullo schermo dello spogliarello della ballerina turca Aichè Nanà al Rugantino – il primo avvenuto in Italia in un locale pubblico - e il primo a essere fotografato e poi pubblicato su vari rotocalchi con la firma di Tazio Secchiaroli. E poi la prorompente sensualità di Anita Ekberg all’interno della fontana di Trevi. Dell’attrice svedese Pierluigi Praturlon era amico. Ecco il suo ricordo.

L’incanto

«Io la conoscevo da prima de ‘La dolce vita’, eravamo molto amici dai tempi di ‘Guerra e pace’, uscivamo spesso insieme, andavamo a ballare tutte le sere. Una notte d’agosto del 1958, Anita che ballava sempre scalza, si era fatta male a un piede. Ritornando a Roma alle quattro del mattino, siamo passati davanti a Fontana di Trevi completamente deserta. Ci fermiamo, lei scende e alzandosi la gonna, inizia a camminare dentro la fontana. Io prendo la macchina fotografica e comincio a fotografarla a luce ambiente. Io fotografavo sempre a luce ambiente. Mi ricordo che c’erano solo due carabinieri in un angolo, avranno avuto vent’anni. Non dicevano mezza parola. Rimanevano incantati a guardare quel monumento di donna dentro la fontana, quelle due colonne di gambe».

«Un paio di settimane dopo la pubblicazione di queste foto su Tempo illustrato - ricorda ancora Praturlon - mi chiamò Fellini. Era il marzo del 1959 e cominciammo a girare ‘La dolce vita’. Lui aveva in testa questa storia da un sacco di tempo e il film nacque da quella famosa foto di Anita che balla. Come prima cosa Fellini mi mandò i quattro attori che dovevano fare la parte dei paparazzi. E per due mesi tutti i giorni, io insegnai loro a caricare e scaricare le macchine fotografiche, a montare il flash, a fotografare stando in sella alla Vespa mentre un altro guidava”. Durante le riprese del film Pierluigi Praturlon scattò 13 mila fotografie, un numero enorme. “Non riuscivo a stare fermo un momento, il mio dito era costantemente appiccicato al pulsante di scatto” dichiarò in un’intervista.

Jole Silvani

Il sodalizio tra il fotografo e il regista iniziato all’epoca del “La dolce vita” si protrasse negli anni. Praturlon “firma” nel 1973 le immagini di scena di “Amarcord”, nel 1975 quelle di “Casanova” e tra il 1978 e 1979 quelle di “Prova d’orchestra” e di “La città della donne” dove Fellini richiama sul set Jole Silvani, l’attrice triestina con cui aveva lavorato tanti anni prima ne “Lo sceicco bianco”. Fellini da ragazzo si era invaghito di lei dopo averla vista sgambettare come soubrette sul palcoscenico dei uno dei tanti varietà. “Voglio confessare che ho deciso di fare il regista solo per poter avvicinare tutte le attrici che mi erano piaciute durante la giovinezza: Mae West, Joan Blondel e Jole Silvani.” Nel 1983 Pierluigi Praturlon lavora sul set di “E la nave va” e nell’85 di “Ginger e Fred”.

In molti di questi set Fellini si era avvalso anche della collaborazione “special” di Tazio Secchiaroli che riprendeva ciò che avveniva ai margini della scena che si stava girando. Una cronaca alternativa, quasi un film sul film.

«Un giorno - raccontò Secchiaroli - il regista stava facendo dei provini alle attrici. In un momento Fellini alzò le mani in una posa ieratica. Proprio mentre gli scattavo una foto in quella posizione particolare, dietro di lui si accese un riflettore la cui luce mi entrò nell’obiettivo. Pensando di aver rovinato la foto e ne scattai subito un’altra. La prima neppure la stampai. Ma Fellini mi chiese di mostrargli tutti i provini a contatto e decise che quella foto andava stampata. Provai: c’era una serie di raggi che gli uscivano dalle dita e dalla testa, sembrava quasi una divinità. Quel giorno ho capito cos’era la luce. Da Fellini ho imparato anche il gusto dell’inquadratura. Era lui che mi riquadrava i fotogrammi togliendo il superfluo». —

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