Andrea Stanisci a Spoleto nelle memorie del festival i segreti delle grandi voci

Lo scenografo e costumista triestino ha allestito due mostre che celebrano  i settantacinque anni di attività della prestigiosa rassegna di teatro lirico sperimentale 
Corrado Premuda

l’intervista



Il musicologo Adriano Belli, a cui si deve la fondazione nel 1947 del teatro lirico sperimentale di Spoleto, era l'avvocato di Beniamino Gigli. Appassionato di melodramma, riesce a coinvolgere il Teatro dell'Opera di Roma e il sottosegretario alla Presidenza del Cosiglio Giulio Andreotti per ottenere un appoggio economico da parte del Governo. Nasce così l'evento annuale, il Festival di Spoleto, che ogni estate intende avviare professionalmente giovani cantanti al teatro di musica per rinnovare la scena artistica italiana.

Per celebrare questi primi settantacinque anni di attività, insieme al conferimento della targa del Presidente della Repubblica, arrivano adesso due mostre che intendono raccontare l'avventura umbra. Le esposizioni, curate da Raffaella Clerici e Gianluca Bocchino, sono allestite da Andrea Stanisci, scenografo e costumista triestino che di recente ha iniziato anche a occuparsi di regia. Stanisci collabora da anni con il teatro di Spoleto e anticipa i contenuti degli eventi: «Il 27 agosto inaugura nella sede dell'ex Monte di Pietà la mostra fotografica che illustra le ultime stagioni, dal 2000 ad oggi. Sono immagini che raccontano gli allestimenti, il dietro le quinte, quello che succede in sala prove, l'attività della sartoria, le cose che servono per andare in scena. Il lirico sperimentale è sempre stato un cantiere di cantanti e ha lanciato personalità come Franco Corelli, Antonietta Stella, la nostra Daniela Barcellona, fino a Sonia Ganassi. Una curiosità vuole che la prima edizione del concorso, nel '47, fosse vinta proprio da un'interprete triestina, Edda Brunelli, che ho avuto la fortuna di conoscere».

Che donna era?

«Edda fece una carriera buona ma breve, era stata ad esempio una grande Musetta nella “Bohème”. Quando la conobbi, nella sua casa di Trieste, aveva ottant'anni ma avendo cantato poco la sua voce era rimasta perfetta: ricordo che ci deliziò con alcune arie di “Madama Butterfly” lasciandoci a bocca aperta».

La seconda mostra, invece, ha un taglio documentario.

«Proprio per questo si terrà nell'archivio del teatro, dov'è conservata una quantità straordinaria di lettere, autografi e documenti. Inaugura il 3 settembre e propone documenti mai esposti: gli spartiti del direttore d'orchestra Spiros Argiris, le lettere di Belli, di Beniamino Gigli e del loro giro artistico, e poi autentiche chicche come le carte di Mascagni e Rossini in cui si possono trovare le loro schede di valutazione di cantanti poi diventati grandi, alcune davvero divertenti, interessanti per gli addetti ai lavori ma anche per il pubblico perché svelano l'aspetto umano di alcuni giganti della musica».

A proposito di eventi sul mondo teatrale, lei ha collaborato anni fa a Trieste all'allestimento della mostra dedicata a Giorgio Strehler.

«È stato emozionante sfogliare le sue carte. In tema di schede di valutazione, ricordo con simpatia cosa annotava vicino alla foto di una giovanissima Monica Guerritore con cui poi lavorò proficuamente: “Sarebbe perfetta se sapesse anche parlare”. Gli appunti di Strehler mi hanno colpito per la sua fantasia e per la mancanza di sovrastrutture inutili. Immaginava fantastiche ipotesi di cast, come per una prima edizione dell'“Opera da tre soldi” in cui avrebbe voluto Raimondo Vianello e Sandra Mondaini per il signore e la signora Peachum. Aveva una grande libertà di pensiero. Studiando il suo archivio personale mi colpì anche il modo in cui si poteva lavorare in teatro all'epoca: in uno scambio di lettere con il suo scenografo Luciano Damiani i due discutono su come bruciare nel modo giusto delle assi per assicurare la migliore resa in scena».

Lei ha lavorato spesso con Giorgio Pressburger, Francesco Macedonio, Alessandro Marinuzzi, registi di area triestina. Che ricordo ne ha?

«Ho avuto a che fare con tante persone ma devo ammettere che i miei incontri migliori sono stati con i triestini: con Marinuzzi quando eravamo entrambi ragazzi, da giovane uomo con Macedonio, e con Pressburger da adulto. Tutti e tre hanno segnato in modo positivo il mio fare questo lavoro e in maniera diversa sono persone che mi hanno fatto crescere. Sono tre registi con una marcia in più rispetto alle persone con cui ho lavorato, dotati di curiosità intellettuale, di un'ampiezza di vedute che non ho trovato altre volte e di una grande cultura. Anche in Franco Però e Sabrina Morena ho ritrovato queste caratteristiche».

Quest'anno a Spoleto ha lavorato anche agli spettacoli?

«Ho curato l'allestimento scenico di “Giovanni Sebastiano”, un'operina di Gino Negri nata per la radio. In origine, naturalmente, non si erano posti il problema della messinscena, nel testo sono previsti due ambienti e un viaggio in auto per la città di Milano. Il protagonista crede di essere Bach e tutto ciò che accade è una sua fantasia così ho ideato una proiezione di miei disegni di monumenti milanesi e prospettive sbagliate, un percorso assurdo senza logica che mette in sequenza posti distanti chilometri. A settembre sarò impegnato in un intermezzo del Settecento, “L'ammalato immaginario” di Leonardo Vinci, che non ha niente a che fare con il testo di Molière».

A ottobre Stanisci sarà di nuovo alla Contrada per l'ennesima follia dialettale di Alessandro Fullin: questa volta darà forma a una pagina di storia triestina del passato che non è mai avvenuta. —

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