Andrea Bajani: «Le case? Luoghi o persone dove non servono spettatori»

l’intervista
Le case dove abbiamo vissuto sono come scatole sonore che agitiamo e portiamo all’orecchio per riascoltare il suono del nostro passato. Così la pensa Andrea Bajani, che con il suo ‘Il libro delle case’ (Feltrinelli, pagg. 251, 17 euro) dopo essere entrato nella cinquina dello Strega, è ora in finale al premio Campiello. Allo scrittore romano, che in questo periodo si trova a Houston, in Texas, dove insegna alla Rice University, chiediamo innanzitutto cosa intende per ‘casa’.
«Per me la casa è il luogo, reale o metaforico - risponde Bajani - dove possiamo essere noi stessi senza spettatori. Senza cioè preoccuparci dell’effetto che produciamo sugli altri. Motivo per cui una casa può essere anche una persona un amico o un’amica. Anzi, l’amicizia mi pare la casa per eccellenza: è il luogo in cui ci accomodiamo in qualche modo dimenticandoci di noi stessi».
Noi abbiamo memoria delle case dove abbiamo vissuto, ma anche le case mantengono la memoria dei suoi inquilini.
«Le case sono memoria, come sono memoria i siti archeologici. Quando andiamo in visita in un sito archeologico e ci muoviamo tra le rovine, ci rendiamo conto che lì dentro c’è vita che pulsa. Che l’unico modo, anzi, per riportare quella vita alla luce, per farla davvero sentire, è interrogare la pietra, i resti di un muro portante, di una chiesa. Le case che abitiamo nel presente non sono diverse, ed è sufficiente andare in giro per appartamenti ed è evidente a tutti che la vita di chi ci ha abitato prima si sente».
Come mai ha inserito nel libro anche i fogli del catasto urbano?
«Perché noi pensiamo sempre al catasto come all’emblema della burocrazia e della noia. Senza pensare che, molto semplicemente, dentro ciascuna delle case fascicolate nei faldoni ci sono, e ci sono state, storie familiari, amori, liti, solitudini, matrimoni, allegrie, disperazioni. Che insomma tra quelle mura milioni di uomini, donne e bambini ogni giorno si sono svegliati e hanno provato a essere felici, ciascuno a modo proprio».
Il libro è scritto con uno stile impersonale, descrittivo, come se questo approccio minimale fosse l’unico modo di poter maneggiare i ricordi.
«Grazie per questa notazione, credo sia il cuore del libro. Non amo i libri che ti buttano in faccia le emozioni senza lasciare lo spazio al lettore di provarli autonomamente. Mi piace che ci sia onestà nel dialogo tra chi scrive e chi legge: ti do una storia incandescente ma ti do anche dei manici per maneggiarla. Non è mia intenzione bruciare gli occhi del lettore. Leggere è andare altrove, ma non rinunciare mai ai propri occhi».
Alla fine del suo libro siamo in piena pandemia, costretti a fare i conti con con la scoperta dell’altrui, a volte ingombrante, presenza. Esiste una giusta distanza, anche emotiva, per vivere con gli altri?
«La vita avviene sempre in uno spazio, e la negoziazione di quello spazio con gli altri è il nodo di ogni esistenza. La pandemia lo ha reso solo visibile, è il liquido di contrasto che rende visibile quanto dividere una camera da letto, un divano o il pianeta sia quello che facciamo».
Il suo rapporto con gli scrittori triestini. Li conosce, ne apprezza qualcuno in particolare o viceversa prova delle idiosincrasie?
«Un nome su tutti. Bobi Bazlen. Lo incontrai dentro ‘Lo stadio di Wimbledon’ di Daniele Del Giudice, e da allora ha segnato la mia vita. Scrivere è sottrarsi».
Lei è arrivato in finale sia allo Strega che al Campiello. Va volentieri a questo tipo di promozioni mondane, oppure le costa fatica?
«Sono stati due tour molto intensi, soprattutto dopo molti anni in cui me ne sono stato in disparte da tutto. In generale però penso che nel mondo dei libri abbiamo oltrepassato una soglia, e che nell’essere scrittori oggi è richiesta una porzione di ‘professionismo’ in cui faccio fatica a riconoscermi. Il presenzialismo, social e in persona, la coazione a ripetersi mi pare stiano usurando il concetto di ‘dialogo’ tra chi scrive e chi legge. I due tour Strega e Campiello sono stati entusiasmanti, ma ora torno in disparte, in silenzio, a covare quel che chissà quando scriverò». —
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