Anche imperatori e santi fanno la storia a tavola con chef e food-design

di Roberto Bertinetti
Lussuosi banchetti o pranzi allestiti con pochi ingredienti costituiscono lo spunto per viaggiare a ritroso nei secoli di due studiosi che hanno messo l'alimentazione al centro dei loro libri. Franco Cardini in "L'appetito dell'imperatore" (Mondadori, 350 pagine, 19 euro) e Massimo Montanari in "I racconti della tavola" (Laterza, 217 pagine, 18 euro) offrono ottime sintesi di civiltà culinarie lontane nel tempo e ritratti di personaggi famosi attraverso vicende che si snodano dal medioevo all'età contemporanea. Cardini privilegia la forma narrativa, cita le fonti e aggiunge le ricette, mentre Montanari sceglie la ricostruzione puntuale ma l'obiettivo è il medesimo: far vedere cosa portavano in tavola i nostri antenati, quali significati erano sottesi alla scelta degli alimenti da consumare.
Scopriamo, ad esempio, che tra medioevo e rinascimento le abitudini dei potenti cambiano. Al tempo di Carlo Magno, infatti, i sovrani e gli aristocratici amavano rappresentarsi come robusti guerrieri e mettevano al primo posto nella loro dieta carni di cervo, di orso o di cinghiale, ritenute adatte a costruire muscoli e forza fisica. In seguito, invece, si privilegiano volatili e pasticci. Il motivo? A partire dal XV secolo, spiegano gli storici, i signori mutano i paradigmi della loro identità e i modi di farla apparire in pubblico: il prestigio sociale non si misura più sui campi di battaglia bensì nella vita di corte, nella capacità di scegliere i cibi da consumare e di servirli in forme appariscenti.
Un'abitudine non solo italiana, come testimonia un episodio raccontato da Cardini che ha per protagonista un altissimo prelato della chiesa ortodossa a cui si deve la popolarità di un piatto ancora oggi assai diffuso. «Il religioso - scrive Cardini - apprezzò la pietanza che gli venne servita in gran pompa, ne lodò la crosta d'oro tanto adatta al suo rango ma soprattutto ammirò il bel verde brillante di quella pasta che si alternava agli strati di carne e di salsa chiara. Era nata così la gloriosa lasagna, che in seguito si perfezionò grazie alla sostituzione dell'arcaica 'salsa colla' con la preziosa besciamella, creata da un cuoco francese e dedicata al marchese Louis de Bechameil, dal quale desunse il nome».
In entrambi i volumi troviamo Francesco d'Assisi alle prese con il cibo. Che asseconda il desiderio di un confratello svegliatosi una notte affermando di morire di fame. Al termine del pasto a orario insolito, consumato dall'intera comunità, Francesco afferma: «Come ci dobbiamo trattenere dal soverchio mangiare, nocivo al corpo e all'anima, così dobbiamo guardarci dall'eccessiva astinenza, perché il Signore preferisce la misericordia al sacrificio». E quindi raccomanda che nei limiti concessi dalla scelta della povertà ciascuno «accordi al suo corpo quanto è necessario». La leggenda, poi, narra che lo stesso Francesco, sul letto di morte, abbia chiesto di poter assaggiare per l'ultima volta dei dolci di cui era ghiotto, i mostaccioli, biscotti secchi a base di mandorle.
Alle abitudini frugali dei frati. si contrappone l'opulenza degli imperatori. Per Carlo V, a Roma nel 1536, si allestisce un banchetto ideato e diretto dal famoso capocuoco Bartolomeo Scappi composto da ben dodici "servizi", ossia da altrettanti buffet ciascuno dei quali contava dalle otto alle ventidue vivande. Furono così portati in tavola centocinquanta piatti diversi oltre a decine di qualità di frutta senza contare i canditi e i confetti di chiusura. Un'eccezione? No, visto che per un matrimonio bolognese tra nobili si superano le duecento portate e ognuna di essa viene mostrata al popolo radunato intorno al palazzo prima di arrivare in tavola. Il motivo di questa scelta? Il cibo dei signori non è fatto solo per essere mangiato, è lo spettacolo del potere e della ricchezza da esibire di fronte ai convitati e ai sudditi.
Interessante scoprire, grazie a Cardini e Montanari, che la separazione dei sapori (ovvero il salato distinto dal dolce) è un'invenzione della modernità sconosciuta prima del Settecento. In precedenza non si amava distinguere, al contrario si mescolavano i sapori: il dolce si insinuava dappertutto, intrecciandosi all'amaro, all'acido, al piccante. La vivanda ideale, consigliavano i cuochi, li doveva contenere tutti in osservanza delle regole di sana alimentazione care ai medici. Perciò i sapori si alternavano dall'inizio alla fine del pranzo o della cena, affacciandosi in diverse gradazioni. «Nessuna vivanda rifiuta lo zucchero», teorizzava un dotto umanista.
Tra quelle che oggi appaiono le stranezze del passato c'era l'idea diffusa nel XVIII secolo che il caffè fosse in primo luogo una bevanda afrodisiaca. Don Giovanni, del resto, lo consuma a più riprese, in un trattato uscito a Londra nel 1724 lo si raccomanda agli uomini "prima di concedersi alle signore". Leggende in proposito, sottolinea Cardini, fiorirono anche nel mondo arabo. Si disse persino che la bevanda era stata inviata da Allah al Profeta che giaceva ammalato e che questi, dopo averla sorbita, aveva riacquistato tanto vigore «da poter disarcionare quaranta cavalieri e soddisfare quaranta donne».
Anche gli artisti si lasciarono incantare da insoliti rituali legati al cibo. Lo narra Giorgio Vasari che nelle sue cinquecentesche "Vite" racconta le avventure della "Compagnia del Paiuolo", fondata a Firenze dallo scultore Giovan Francesco Rustici, amico e stretto collaboratore di Leonardo. I membri della Compagnia si riunivano periodicamente e ciascuno doveva portare "una cosa fatta da cena con qualche bella invenzione".
La più singolare si deve al pittore Andrea del Sarto che presentò un tempio a otto facce: il pavimento era un enorme piatto di gelatina, le colonne erano "grandi e grossi salsicciotti", le basi e i capitelli di parmigiano, i frontoni di pastafrolla.
La passione contemporanea per gli alimenti e i rituali della tavola, testimoniata da decine di programmi tv, non è dunque una novità. Del cibo, documentano Cardini e Montanari, si è sempre parlato e scritto nei secoli. Probabilmente perché, ci spiegano gli antropologi, ciò che viene portato in tavola è lo specchio di un mondo, di una società, di una cultura. E, dunque, non ha mai smesso e non smetterà mai di suscitare interesse.
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