Amy Hempel: «I social rovinano la letteratura. E anche Trump»

La scrittrice americana presenta oggi “Nessuno è come qualcun altro” storie di donne che hanno sofferto. «Mi interessano le persone vulnerabili»

Faderica Manzon / pordenone

Da quando, nel 1985, ha esordito con la raccolta di racconti “Ragioni per vivere”, Amy Hempel si è affermata come una delle autrici americane con il talento letterario più affilato. Oggi sarà in collegamento con Pordenonelegge, alle 19 al Capitol, presenata da Antonio Riccardi (e in differita mercoledì 30 settembre alle 18) per presentare “Nessuno è come qualcun altro” (pagg. 156, Sem, 17 euro). Una raccolta di racconti dove le protagoniste sono donne che hanno sofferto situazioni difficili, eppure in loro non c’è traccia di vittimismo o autocommiserazione. «Trovo narrativamente poco stimolante raccontare le vittime» spiega l’autrice. «Piuttosto guardo alle persone vulnerabili, perché sono più complesse. A interessarmi non è tanto cosa accade ai personaggi ma come l’affrontano».

La sua è una scrittura chirurgica e insieme evocativa, da dove arriva?

«Dalla poesia. Non saprei scrivere un verso, ma leggo moltissima poesia contemporanea, soprattutto quando scrivo. A volte mi fermo su una sola raccolta o alcune poesie, le leggo e rileggo ossessivamente».

Un esempio?

«Sharon Olds e Jane Hirshfield. Da Olds ho imparato le metafore e a scrivere senza paura, da Hirshfield a rendere la scrittura una lama.»

Insegna scrittura creativa: serve a diventare romanzieri?

«Il talento o c’è o non c’è. Ma si può insegnare ad ascoltare. Ad ascoltare un discorso facendo attenzione a tutto ciò che sta al margine e non viene detto, e poi si può imparare a mettere quel non detto sulla pagina. Si può insegnare a fare l’editing dei propri testi, a capire cosa è essenziale e cosa no».

Viviamo tempi difficile da raccontare…

«Credo che uno scrittore non sia obbligato a raccontare la propria epoca. Il suo unico dovere è scrivere bene».

Qual è secondo lei lo stato di salute della narrativa contemporanea?

«C’è un’enorme vitalità, in particolare nelle voci che arrivano da altre parti del mondo: Turchia, Nigeria, Sud America. Ci sono scrittrici davvero straordinarie, penso alla cilena Paulina Flores ad esempio, o a Yaa Gyasi, nata in Ghana».

Il mondo culturale americano è diviso dalla tempesta della “ cancel culture”…

«Il politically correct è problematico per la fiction. Anni fa, in un workshop, uno studente criticò il lavoro di un altro perché il protagonista fumava. Qual è il problema? Be’, fumare è una cattiva abitudine, mi rispose. Così ragionando perdiamo la migliore letteratura mondiale».

La “cancel culture” però incontra ampi favori, soprattutto tra i giovani…

«Vedo bene i problemi dell’appropriazione di una cultura da parte di una dominante e le conseguenze che ne derivano. Ma la questione per me è: cosa accade all’immaginazione quando decidiamo che ci sono cose che si possono dire e altre no?».

I social stanno cambiando il nostro rapporto con la scrittura?

«Quando leggo i lavori dei miei studenti trovo sempre i personaggi intenti a guardare Instagram o Tik Tok. Oh no, dico, questa cosa rende subito la tua storia datata. E poi credo che l’uso massiccio dei social ci abitui a un’esperienza più frammentaria e veloce della lettura, questo condiziona la nostra capacità di leggere un testo letterario».

Lei è molto attenta all’ecologia. È è preoccupata dalle scelte di Trump?

«C’è il problema della pandemia che investe tutta l’America, ma per la cosa ovest c’è anche il disastro degli incedi che stanno portando a una situazione apocalittica. È come se l’intero territorio americano stesso dicendo: ne abbiamo abbastanza. Tutto ciò che Trump ha fatto dall’inizio del suo mandato, è l’opposto di quello che si dovrebbe fare».

Cosa pensa di queste elezioni?

«Biden e Harris devono vincere, altrimenti non c’è nessuna possibilità per il paese.»

È ottimista?

«Sono ottimista se vincono». —



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