Alloggiava al Savoia Cervo Bianco, il falso indiano che ingannò l’Italia fascista

Edgar Leplante era stato invitato a Trieste dalla contessa Khevengüller, cui spillò oltre un milione di lire. Incontrò gerarchi, fece beneficenza, conquistò le folle. E poi passò cinque anni in galera 

TRIESTE Invitato dalla contessa Melanie Khevenhüller, Edgar Laplante alias il Capo indiano Cervo Bianco arriva a Trieste nel giugno 1924. L’Onorevole Matteotti è stato ucciso da pochi giorni. Il fascismo attraversa la sua prima grave crisi, a cui reagisce con una seconda ondata di violenze squadriste. Le opposizioni si ritirano nella sala dell’Aventino mentre il popolo, stremato dalla brutalità fascista e affamato dalla mancanza di lavoro e prospettive, è affascinato da questo ricco pellerossa che gira l’Italia facendo beneficenza.

Cervo Bianco incanta, è selvaggio, racconta storie che paiono uscite dai romanzi di Salgari. E la contessa Melanie, austriaca, sessantatre anni, vedova da quasi venti, residente a Fiumicello in una villa che dalla fine della guerra non è più sua, si convince a dargli del denaro. Che, lui assicura, le resituirà a fine anno, entrato in possesso di una certa eredità.

In pochi mesi il prestito supera il milione di lire. Un patrimonio. Che Edgar getta letteralmente dalle finestre e dai balconi degli hotel in cui alloggia, sulle folle che, sempre più numerose, aspettano a mento in su l’apparizione del “principe delle favole”, come viene chiamato nelle migliaia di lettere che in quei mesi gli indirizzano donne, bambini, vedove, orfani e reduci di guerra, strampalati inventori, aspiranti artisti e purtoppo tanti, tantissimi miserabili. Che chiedono a lui un aiuto per sopravvivere.

Trieste è il suo campo base. Fava, il direttore dell’hotel Savoia, tiene sempre tre stanze libere per l’indiano e i suoi segretari scelti tra le fila della Milizia.

Dal Savoia Edgar parte per il giro della Penisola a bordo di un piroscafo della Società di Navigazione Adria. Venezia, Fiume, Ancona, Bari, Roma, Genova. Incontra alte personalità del PNF. Tamburini, il “grande bastonatore” dello squadrismo fiorentino, che cerca di fargli ottenere la cittadinanza italiana. Farinacci, il più fedele e insieme il più infido avversario di Mussolini. Giunta, che ha guidato l’assalto al Narodni Dom, lo riceve a Trieste insieme al vescovo Fogar.

Al Savoia torna sempre, dopo la visita in Carinzia al castello della contessa, dopo i pomeriggi ai bagni di Grado, le visite in Carso e a Postumia. Da qui parte in idrovolante con il generale Traditi alla volta di Brioni, dove si organizza un ballo in maschera in suo onore. Al quale si presenta a mezzanotte, attraversando il salone sul dorso di un cavallo bianco, salutato da uno spettacolo di fuochi d’artificio.

La giornalista Dora Salvi, che tre decenni più tardi compilerà i primi elenchi di deportati – oggi noti come l’”Albo d’oro” - è inviata dal Piccolo per intervistarlo. Attraversando la folla che da giorni staziona in riva del Mandracchio, orecchia uno scambio di battute sul Gabbiano Bianco (come inspiegabilmente lo ribattezza: White Elk, Alce Bianco, in italiano già tradotto “Cervo”, si trasforma a Trieste in un volatile):

- El ghe ga dà qualcossa?

- Niente! Quel xe tropo rico per mi, mi sono tropo povera, la distanza xe grande e nol me vedi.

Con un po’ di confusione, Dora scrive che i suoi occhi “fanno pensare ai fantastici eroi delle pampas, delle praterie, di terre lontane e sconosciute, paesi di passioni e violenze”. Descrive l’abito “color grigio-gabbiano, tempestato di giri di diamanti, code di ermellino, oro”. Non ha modo di verificare le storie che lui racconta, come quella dei duecentottanta milioni di lire che la madre morente, una Borbone, gli avrebbe lasciato per fare beneficenza in Italia. Cervo Bianco le mostra foto autografe del Papa, di D’Annunzio, un anello - regalo di Mussolini. Lei ne approfitta per chiedere cosa ne pensi dell’attuale momento politico, e lui risponde: “Io mi sento fascista nell’anima. Con Benito Mussolini ci siamo scambiati pegni di fraterna amicizia”. Non è vero. Cervo Bianco e Mussolini non si sono mai incontrati. Durante il processo per “truffa di ingente valore” ai danni della contessa Khevenhüller, vengono svelate tutte le bugie e i raggiri: non esiste nessuna madre Borbone, nessuna eredità, ma soprattutto Edgar Laplante non è un indiano. L’abito decorato in oro, è un costume di scena acquistato alle Galeries Lafayette pochi mesi prima. Tutto fumo. Non esiste nemmeno un Capo Cervo Bianco. Esiste Edgar Laplante, un attore americano con seri problemi di alcol e una propensione per la truffa, giunto in Europa per promuovere l’ultimo film Paramount, “I pionieri” (1923). Al processo, tenutosi a Torino due anni dopo, i fascisti non si presentano. Tutti adducono indisposizioni e minimizzano i rapporti con Laplante. In quattro mesi Edgar ha sottratto a Melanie più di un milione di lire, distribuiti ai poveri d’Italia – ma spesi anche in bagordi e sovvenzioni al Partito Fascista in cambio di tessere, omaggi e cappellini. Condannato a cinque anni di carcere, pare che qualcuno, alla lettura della sentenza, abbia commentato “Sono altri, quelli che andrebbero processati”. Riferendosi sicuramente ai criminali che da lì a poco avrebbero inchiodato l’Italia. —

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