All'Hotel de la Ville debuttò a Trieste 172 anni fa il turismo d’élite
TRIESTE Trieste sta vivendo un incremento rilevante di turismo. La sua ricettività alberghiera è andata aumentando considerevolmente negli ultimi dieci anni. Una cosa che, solo agli inizi del XXI secolo, era semplicemente inimmaginabile. Eppure, a dare retta ai dati statistici, sempre più visitatori scelgono la nostra città per un soggiorno che di solito non eccede i tre giorni. Accanto ai grandi alberghi storici (si pensi solo al Savoia Excelsior, inaugurato nel 1911, o ai Duchi d’Aosta, sorto sulle rovine della famosa Locanda Grande in cui fu assassinato Winckelmann, che risale, come Hotel Garni, al 1873) si apre ormai una costellazione di hotel di grandi e di piccole dimensioni (da quattro a una stella, nella forma di locanda). Cui si aggiungono gli innumerevoli bed&breakfast (si pensi che, soltanto facendo riferimento alle capacità attrattive di Joyce, possiamo ormai annoverare ben sette strutture a lui intestate).
Recentemente, a sancire il livello degli interventi, è arrivato anche un hotel del gruppo Double Tree by Hilton (ex palazzo Ras). Il che corona una storia di accoglienza che vede la città nel pieno della sua evoluzione turistica: una vocazione che risale a quasi duecento anni fa, in concomitanza con la crescita della città “emporiale”, il cui porto franco, sancito nel 1719 da Carlo VI d’Asburgo, ha rappresentato una straordinaria fonte di attrazione. Ma, a quando possiamo far risalire questa attrazione? Beh, non tutti sanno che il suo esordio in campo alberghiero di livello ha una data precisa e un suo artefice. Il tutto legato a un altro hotel di grande prestigio (il primo in assoluto in città di quel livello, ormai scomparso) che si chiamò dapprima Hotel Metternich e poi Hotel de la ville.
Fu, infatti, proprio il Principe di Metternich a percepire l’imminente espansione di Trieste, ipotizzando che la città avrebbe, nel giro di pochi anni, evidenziato non solo una pressante richiesta di alberghi in grado di dare ricovero agli innumerevoli viaggiatori, per lo più agenti di compagnie straniere, ma anche un’esigenza legata a un potenziale turismo. Evenienza ben ipotizzabile, dato che guide come il prestigioso Thomas Cook Handbook, avevano cominciato a inserire Trieste, per lo più come tappa per il ramo del Grand Tour dirottato sulla Dalmazia. E dato che a metà dell’Ottocento l’unico albergo noto era la Locanda Grande (in Piazza Grande), si poteva ben parlare di scarse capacità ricettive.
Dunque fu proprio Metternich, a partire da una sua visita del 1838 in cui scoprì le bellezze della città, a caldeggiare pubblicamente la decisione di costruire un grosso albergo a pochi passi dal Palazzo Demetrio Carciotti, che era la sede emblematica del commercio cittadino. Da qui la decisione di abbattere la casa Sartorio, nello spazio fra la Chiesa greco-ortodossa e l’edificio voluto dal grande Demetrio, per edificare, su un’area di 1300 mq, un vasto edificio di quattro piani che guardasse direttamente sulle Rive. A quel tempo lo spazio tra il molo e la fila dei palazzi era ben più ridotto di quello odierno, sicché lo sciabordare del mare sarebbe stato assai prossimo alle finestre delle stanze.
Ed ecco che l’Hotel Metternich (poi ribattezzato, a richiesta popolare irredentista, Hotel de la ville) venne solennemente inaugurato nel 1848, e fu subito evidente che si trattava di un albergo di notevole raffinatezza ed importanza. La facciata, munita di cinque fornici con arco a sesto, conteneva una serie di negozi perfettamente funzionali all’Hotel (un caffè, un parrucchiere, una sarta-modista per le signore, un’agenzia di viaggi), mentre al primo piano — come ha ricordato Silvio Rutteri in L’hotel de la ville, Trieste 1955 — c’erano il Ristorante, una Sala per riunioni ed un Roof Garden all’ultimo piano, detto Belvedere. Nell’area «centrale» c’erano i «bagni» — anche accessibili attraverso un ingresso separato da via Cassa ora via Genova — con vasche in marmo di Carrara ed acqua marina calda o fredda proveniente dal Molo San Carlo; le stanze poi, nella versione anche con porte interne all’uopo comunicanti, erano lussuose. Ovunque stufe e caminetti per il riscaldamento. L’arredamento era molto curato, con letti in ferro e ottone; le dotazioni di camera erano di primissimo livello (lino tedesco, lana ginevrina, tappeti di Sassonia, letti con baldacchino, materassi di crine) ed ogni stanza aveva un collegamento a sonagliera meccanica con il bureau (allora una vera chicca «tecnologica»). Al Ristorante camerieri in divisa, con ampi grembiuli bianchi, servivano i clienti, come ricorda il Rutteri, usando «servizi da tavola in argento berlinese, con porcellane viennesi, vasellame parigino per la ‘tavola rotonda’ e terraglie di Davenport». Per quanto riguarda la ‘tavola rotonda’, v’è da dire che era un vanto dell’Hôtel: chiamata pretenziosamente «table d’hôte», era una sorta di self-service affiancato a quello à la carte ed era a disposizione prima delle 17,30 ad un prezzo fisso di quattro corone. Per la colazione si prevedeva anche un servizio ‘alla forchetta’, come si diceva, intendendo quello che oggi si chiama English breakfast. Insomma dal 1848 al 2019, l’accoglienza di alto livello a Trieste, il cui turismo d’élite premia un’intuizione di 172 anni fa. —
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