Alice Gombacci, addio alla pittrice e scultrice: nel suo universo di donne il segno di una ferita
MONFALCONE Con la discrezione che le era propria, Alice Gombacci, pittrice, scultrice e scenografa di alto talento, nata a Monfalcone nel 1925, se n’è andata in punta di piedi nel luglio dello scorso anno, nella sua scenografica casa studio romana, al piano nobile di un palazzo quattrocentesco firmato dall’architetto Baldassare Peruzzi.
Alta un metro e ottanta, il volto intenso e gentile incorniciato da capelli lisci, lunghi e bruni, molti la ricorderanno con il suo fare quasi soave nel corso della vernice di una delle mostre che la Torbandena le aveva dedicato, editando nel 1985 il volume “Atlantide” con testo di Sgarbi e nel ‘90 “Alice Gombacci: flash” con testi, tra gli altri, di Pressburger, Rosada, Benzi, Budigna, Lilli.
Sculture e dipinti testimoniavano la sua attenzione per un mondo muliebre, le cui protagoniste nella loro opulenza simboleggiavano un’attitudine sì matriarcale, ma nel contempo femminile e delicata, pervasa da un filo di fragilità e forse di sofferenza. Un’iperbole di volumi, il corpo e il volto di quelle figure, che era emblema di forza, indipendenza e difesa, tipiche delle donne triestine e mitteleuropee, stirpe, cui lei apparteneva, secondo una liaison sancita anche da un fisico da amazzone.
Che la pittrice ci avesse lasciati, non lo sapeva però nessuno da queste parti. Unica voce nel deserto a diffondere la notizia nei giorni scorsi, è stata quella di Fabio Zorzet, curatore della Galleria Rettori Tribbio, che aveva ospitato e promosso i suoi lavori. Un’informazione giunta dallo scrittore, saggista e regista Pier Luigi Albertoni che dal 1980 per trent’anni ha seguito la sua attività, curandone l’aspetto critico, organizzativo ed espositivo. Oltre ad aiutarla a gestire a Roma in via Giulia “Il Marzocco”, bottega antiquaria e d’arte, figlia di quella, specializzata nel Seicento, che Alice aveva condotto a Trieste in via San Nicolò con il marito Stanislao Gombacci nel periodo precedente al trasferimento della pittrice a Roma, risalente ai primi anni Settanta.
Lì abitava già suo fratello Sigfrido Maovaz, di due anni più giovane, anche lui pittore e scultore ma pure grafico, insegnante di scenografia e critico de “Il Tempo”. A Roma – ricorda Albertoni – Alice espose alla Galleria Piazza di Spagna, prima che alla Torbandena e al Teatro Nuovo di Trieste, e alla “Spazio prospettive” di Milano.
Il legame della famiglia d’origine di Alice con la città eterna era per altro già presente nel 1935, quando il padre Mario Maovaz, spalatino di madre croata, nel tourbillon di arresti subiti nel corso della sua vita di appassionato esponente politico, vi era approdato, riunendosi a moglie e figli, che vi si erano trasferiti. Nel ‘43 – ricorda Roberto Spazzali ne “Il bibliotecario di Ventotene Mario Maovaz: un rivoluzionario per l’Europa dei popoli e l’autonomismo triestino” – con la caduta del fascismo, verrà liberato dalla detenzione a Ventotene e tornerà a Trieste. E qui si apre una pagina terribile per Alice e la famiglia: divenuto il maggior esponente del movimento autonomista “Trieste libera”, che voleva l’indipendenza dalla Venezia Giulia, Mario viene arrestato nel gennaio ’45 dall’Ispettorato speciale di pubblica sicurezza, creato dal fascismo contro il terrorismo slavo, e torturato nella caserma di via Cologna da Gaetano Colotti con moglie e figli, rilasciati nei due mesi più tardi, mentre lui viene fucilato.
Non è forse un caso se tra le opere considerate tra le più interessanti di Alice, accanto alle esuberanti e a volte un po’ grottesche Pomone (la dea etrusca della fertilità e quella romana dei frutti), ci sono degli elmi barbari, che grondano violenza, sangue, inquietudine. Corde spezzate, disordine, intensi graffi di colore rosso creano uno iato potente in rapporto alla tornita opulenza del suo universo femminile, come una ferita che non ha mai smesso di sanguinare. Ideati negli anni ’60, furono esposti nella sua ultima mostra, allo spazio Fantastico di Pitigliano nel 2011. In pittura, un altro leit motiv era invece Macometto, fantoccio di tela un po’ irriverente, una sorta di servo di scena che dialoga con i protagonisti.
Ma com’era Alice nella vita? «Una vera signora, di grande rispetto e bontà. Purtroppo, come tutte le donne - ricorda Albertoni - è stata messa molto da parte. Elogiata dai critici, nelle manifestazioni ufficiali non veniva invitata e, poichè lei non interveniva, rimaneva ai margini, ma artisticamente è l’anello mancante di tutto il secondo ‘900 italiano, dotata a differenza di altre artiste, di una personalità precisa».
Il suo dipinto “Poltrona rossa” e quello intitolato “Lotta” del fratello Sigfrido furono donati da Alice nel 2005 al Comune di Trieste e collocati al Revoltella: «Era un’artista che andava rappresentata in Museo - ricorda l’allora direttrice Maria Masau Dan - e, credo, sia stata esposta in molte occasioni. Era sicuramente una figura interessante, che m’incuriosiva, tant’è che tantissimi anni fa ho anche comprato un suo disegno». Non a caso Alice è presente in prestigiose collezioni in Italia e all’estero e storiche rimangono la mostra allestita al Comune di Atene su invito del ministro della Cultura Melina Mercouri, la grande antologica nella sede parigina Unesco e al Vittoriano di Roma, in Belgio, a Londra, in Danimarca e al Castello di S. Giusto a Trieste. —
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