Alex Britti: «Che emozione quel duetto con Ray Charles al Festival di Sanremo»

l’intervista
Che Alex Britti abbia raggiunto la popolarità grazie a successi quali “Mi piaci”, “La vasca” e “7000 caffè” pare innegabile, ma è altrettanto innegabile che il cantautore romano è, prima di tutto, un musicista, un chitarrista di valore. Ne darà prova, per il suo secondo concerto dopo il blocco imposto dal Covid, nella trentesima edizione di “GradoJazz by Udin&Jazz”. La kermesse comincia oggi al Parco delle Rose, con alle 20 i Quintorigo, mentre alle 22 sarà la volta di Michael League e Bill Laurance (basso, pianoforte e tastiere), anime del collettivo degli Snarky Puppy, applauditi ospiti nel 2019. Britti, invece, sempre al Parco delle Rose, a Grado, sarà sul palco domani, alle 21.30.
Che concerto sarà?
«Molto schietto, senza fronzoli. In fondo, non ho mai rincorso effetti speciali e da artista pop mi sono sempre sentito in imbarazzo quando mi proponevano concerti di un certo tipo. Nasco chitarrista e son tornato a essere un chitarrista. Il repertorio, ovviamente, è il mio, quello dei dischi: ci saranno quindi singoli, ma anche brani che non passano in radio perché purtroppo le radio propongono generi da centro commerciale. E se a trent’anni certe canzoni le fai volentieri, a cinquanta deve esserci spazio per altro. Sul palco saremo quindi in quattro musicisti (basso, chitarra, batteria, tastiere) e due coriste, oltre al mio amico trombettista Flavio Boltro, con cui l’anno scorso ho fatto Umbria Jazz e a Natale e due concerti a Roma. Insomma, sarà un concerto di pezzi con il vestito blues e jazz, sempre molto sperimentali, e con tanta improvvisazione».
Chi è il suo chitarrista prediletto?
«Probabilmente Freddie King. Quand’ero giovane si ascoltava ciò che si trovava, ma, stando a Roma, avevo comunque più disponibilità di musica rispetto a città più piccole. C’erano i dischi di importazione, non distribuiti, quelli che soltanto qualche “matto” si faceva arrivare: costavano molto e, con altri amici, facevo una colletta per comprarli. Poi, il disco che acquistavamo restava a casa di qualcuno di noi, senza ascoltarlo per non consumarlo. Per ascoltarlo lo registravamo, allora, in cassetta. Tra questi, uno era il disco di Freddie King “Rockin’ the blues”».
Ha cominciato ascoltando jazz e blues?
«A casa mia si ascoltava la musica romana di Franco Califano, Gabriella Ferri, Lando Fiorini e un po’ di Barry White, che a mio papà piaceva molto. Da adolescente, ho iniziato a suonare ascoltando cantautori come Edoardo Bennato in primis, Rino Gaetano e Ivan Graziani. Poi, il primo chitarrista importante, il primo con cui mi sono chiuso in cameretta per tirarmi giù gli assoli è stato Santana. Stevie Ray Vaughan è venuto dopo e lui mi ha portato a Freddie King. Inconsciamente, finivo sempre verso il blues texano. Tra il Texas e Roma penso che ci sia un’analogia, per quel modo di essere un po’ coatti, un po’ spavaldi, proprio come Freddie King e Stevie Ray Vaughan. In seguito sono cresciuto e mi sono affacciato al mondo…».
In che senso?
«Sono stato folgorato da Pat Metheny. Poi ho amato Wes Montgomery e, successivamente, Paco de Lucía: non per il flamenco. Gli altri chitarristi, infatti, hanno meno cattiveria, meno energia, ma Paco de Lucía, che ho ascoltato anche più volte dal vivo, nel flamenco era veramente un marziano».
Al di fuori dei chitarristi, a chi vanno le sue preferenze?
«Mi sono innamorato di John Coltrane, di Miles Davis, di Stanley Turrentine, di Cannonball Addarley e del fratello Nat, che sonava in tutti i suoi dischi. Sì, sono sempre stato un rockettaro, un bluesman che però, quando tornava a casa, ascoltava il jazz».
Dopo tanta musica ascoltata e fatta, le soddisfazioni sono arrivate, come nel caso del duetto con Ray Charles a Sanremo…
«Lui, che ovviamente non mi conosceva, e soprattutto il suo manager erano molto diffidenti. Alla fine, gli ho chiesto in modo molto diretto se voleva fare una prova, altrimenti sarei stato contento comunque di potergli stringere la mano. Quando ho finito l’assolo di chitarra si è alzato in piedi con le braccia al cielo, fermando l’orchestra. Pensavo che mi avrebbe cacciato e invece mi ha chiesto scusa, dicendomi che era un onore suonare con me. Poi, ha domandato al direttore d’orchestra di raddoppiare il mio assolo. Insomma, siamo andati in camerino a chiacchierare per ore e, il giorno dopo, abbiamo suonato. Era semplice, affettuoso, un musicista vero». —
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