Alessandra Sarchi «Racconto la vita bella nonostante...»
La scrittrice che vive a Bologna in finale al Campiello con il romanzo “La notte ha la mia voce” (Einaudi)

Si può amare la vita. Anche quando perdi l’uso della gambe. Anche se le tue giornate sono inchiodate a una carozzella. E Alessandra Sarchi, che nel 2002 è rimasta coinvolta in un terribile incidente di macchina, lo ha voluto raccontare nel suo terzo romanzo. Quel “La notte ha la mia voce” (Einaudi) che è piaciuto alla Giuria dei Letterati del Campiello tanto da inserirlo nella cinquina dei finalisti.
Sabato, Alessandra Sarchi, nata a Reggio Emilia con casa a Bologna, proverà a vincere il Premio, nella serata finale al Teatro La Fenice di Venezia presentata da Natasha Stefanenko e Enrico Bertolino. In gara con lei saranno Stefano Massini con “Qualcosa sui Lehman” (Mondadori), Mauro Covacich con “La città interiore” (La nave di Teseo), Laura Pugno con “La ragazza selvaggia” (Marsilio), e Donatella di Pietrantonio con “L’Arminuta” (Einaudi).
Due donne si contendono il palcoscenico di “La notte ha la mia voce”. Una, dopo l’incidente che le ha fatto perdere l’uso delle gambe, si sente esclusa dal mondo dei “normali”. Come se per un sortilegio fosse costretta a vivere in un corpo non suo. L’altra, la Donna Gatto, pure lei tormentata da una menomazione, è convinta invece che la vita vada affrontata sempre come una sfida. Con grinta, passione, coraggio. Senza mai arrendersi. Dal loro incontro nasce una riflessione emozionante sul ruolo di chi non è uguale agli altri in una società costruita su stereotipi falsissimi.
«Non credo di avere mai avuto la tentazione di creare un romanzo attorno a me stessa - dice Alessandra Sarchi -. Raccontare la mia storia mi sembrava molto limitante. Ho voluto affrontare un tema che mi interessa molto, da quando ho cominciato a scrivere. Ovvero, il limite fisico, la condizione di minorità in cui ognuno di noi si può trovare all’improvviso».
Chi la conosce avrà pensato il contrario?
«Senza dubbio il mio vissuto è stato importante per dare forma al romanzo. Ho potuto raccontare una situazione che conosco bene, che vivo, per modellare la storia. Buffo, però, è che tanti miei amici dicono di avere individuato i passaggi, gli episodi precisi, in cui riconoscere me. Peccato che ognuno, poi, citi brani diversi del romanzo. E non azzecca mai».
E allora dove sta Alessandra Sarchi?
«In tutte le pagine e in nessuna. Io sono sia l’io narrante che la Donna Gatto. Anche se, in realtà, tutti e due i personaggi sono soltanto delle proiezioni. Non me stessa. Ho prestato a entrambi pezzi del mio vissuto».
Tre elementi scandiscono il divenire del libro: acqua, aria e terra. E il fuoco?
«Manca. Credo che l’interpretazione più bella di questa assenza l’abbia data Caterina Bonvicini sulla “Repubblica”. Secondo lei l’elemento del fuoco si ritrova nella scrittura. Perché trasforma il vissuto, lo rielabora».
La scrittura, appunto: quanto conta nella sua vita?
«La vocazione alla scrittura c’è sempre stata. Anche se ha subito delle mutazioni nel corso del tempo. Io sono laureata in Storia dell’arte, ho fatto un dottorato a Ca’ Foscari di Venezia. C’è stato un tempo in cui mi dedicavo a una scrittura di tipo saggistico».
E poi?
«A un certo punto mi sono data il permesso di scrivere racconti. Perché non è facile passare dalla dimensione privata, dall’inventare una storia e tenerla tutta per sé, al dover affrontare una lettura publica. Ad affidare il manoscritto a un editore, aspettare il responso».
E com’è andata?
«Direi bene. Visto che nel 2007 un mio racconto è entrato nell’antologia di Diabasis “Narratori attraverso”. E che l’anno dopo ho esordito con “Segni sottili e clandestini”.
“La notte ha la mia voce” è piaciuto molto, più degli altri due romanzi: “Violazione” e “L’amore normale”...
«Per me questo libro è stata una sorpresa. A inizio maggio ha vinto il Premio Mondello, pochi giorni dopo è entrato nella cinquina di finalisti del Campiello. Sinceramente, non so se mi aspettavo tanto successo. Quando scrivi non sai mai quale sarà la storia di un libro. Segue una via tutta sua».
Bello incontrare tanti lettori in giro per l’Italia con il Campiello?
«Bello soprattutto scoprire che qualcuno si ispira a quello che scrivi. Come un artista veneto, che credo viva in Francia: mi ha regalato un suo disegno della Donna Gatto. Donando al personaggio un’altra vita».
“Presto ho scoperto di essere morta”, recita l’incipit del libro. È stato così anche per lei?
«Il mio incidente in macchina risale al 2002. All’inizio, quando mi sono svegliata all’ospedale, non sapevo se fossi viva o morta. Però provavo la sensazione di avere perduto tutto».
La protagonista vive come una sopravvissuta...
«Dopo l’incidente, lo shock è talmente grande che pensi di essere sopravvissuta a te stessa. Anche perché la Morte ti è passata molto vicina. La puoi sentire, quasi toccare. Con una lesione spinale nessun medico è in grado di assicurarti un futuro».
Che cosa spinge ad aggrapparsi alla vita?
«Quella grande, immensa volontà di vivere che c’è dentro ognuno di noi. Senza dubbio uno dei nostri istinti più forti, che ci spinge ad andare avanti anche quando tutto sembra compromesso. Poi importantissimi sono i familiari, gli amici, chi ti cura. Dopo l’incidente, si prova un terribile senso di solitudine. Che può essere alleviato soltanto dalla certezza che c’è qualcuno pronto ad aiutarti».
Si è soli per davvero?
«Ognuno deve compiere da solo il percorso verso la nuova vita, trovare una nuova identità. E lungo quella strada si toccano livelli alti di infelicità».
L’Italia non è un Paese sensibile a questi problemi?
«Non molto. C’è una sorta di ottusità culturale. Credo che facilitare la vita di chi sta su una carozzella porterebbe a migliorare la situazione per tutti. E invece no, quando c’è la salute non si pensa che le malattie e le disgrazie sono terribilmente democratiche. Prima o poi raggiungono tutti».
Ma il modello di riferimento della nostra società è un altro...
«Lo so. Però dopo i 40 anni nessuno di noi corrisponde più al modello che va tanto in voga adesso. Quello che ci vuole tutti belli, eternamente giovani, performanti. La salute, il benessere, purtroppo non sono eterni».
La vita si allunga, i problemi restano?
«In Europa si vive molto a lungo, anche grazie a una buona alimentazione, alle cure mediche. Però, spesso, la vecchiaia è bersagliata da mille problemi. E allora, perché non investire risorse, intelligenza, per assicurare agli anziani, a chi sta male, adeguata assistenza?».
I politici lo promettono solo in campagna elettorale?
«Solo in quel momento. Poi, però, fanno poco per migliorare le cose».
Quanso si è innamorata della scrittura?
«Alle elementari. Ricordo che, durante la ricreazione a scuola, riscrivevo le storie dei cartoni animati che guardavo in tv. E obbligavo i miei compagni ad ascoltarle».
E poi?
«Ho continuato a scrivere anche al liceo. Però soltanto nel 2006 mi sono decisa a far leggere i miei racconti. Per me è stato importantissimo il giudizio di altri scrittori. Essere riconosciuta come una di loro».
Teneva anche un diario?
«No, non sono mai stata brava in quello. Anche perché penso che un diario è inutile se non prevede un lettore. Però riempivo quaderni interi di racconti».
Mai pensato di scrivere per il cinema?
«No, però mi hanno proposto di fare un film da “L’amore normale”, il mio romanzo del 2014. Finora non è successo nulla. In ogni caso, amo il cinema da sempre».
Emozionata per la finale del Campiello?
«Sarà un momento di grande emozione, come per gli altri finalisti. Ma mi darò coraggio».
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