Albinati e la scuola dove studiarono i mostri del Circeo

Con il racconto dell’educazione al San Leone Magno di Roma l’autore è dato tra i favoriti per la vittoria al Premio Strega
Di Roberto Carnero
Una foto di Angelo Izzo al momento dell'arresto per la vicenda della strage del Circeo (1977). ANSA / ARCHIVIO STORICO
Una foto di Angelo Izzo al momento dell'arresto per la vicenda della strage del Circeo (1977). ANSA / ARCHIVIO STORICO

di ROBERTO CARNERO

Ormai se ne parla con sempre maggiore certezza da diverse settimane, se non da mesi: il vincitore del premio Strega 2016 sembra proprio destinato a essere, almeno nei pronostici della vigilia, Edoardo Albinati con il romanzo La scuola cattolica (Rizzoli, pp. 1294, euro 22,00). Lo scrittore romano si schermisce e si dice tranquillo e sereno. Per lui il più ormai è fatto: un volumone di quasi 1.300 pagine che è sicuramente il romanzo più importante e significativo della sua carriera. Il resto a stasera, quando all'Auditorium Parco della Musica di Roma verrà decretato il vincitore della 70° edizione di quello che per molti è il più prestigioso riconoscimento letterario italiano. In gara con Albinati, troviamo Eraldo Affinati con L'uomo del futuro (Mondadori), Giordano Meacci con Il Cinghiale che uccise Liberty Valance (minimum fax), Vittorio Sermonti con Se avessero (Garzanti) ed Elena Stancanelli con La femmina nuda (La nave di Teseo).

La scuola cattolica, dunque. Siamo a Roma, negli anni ’70, in un quartiere residenziale e in una scuola privata. Un ambiente rispettabile, frequentato dalle "famiglie bene" (che non sono necessariamente le "famiglie per bene"), in cui sembra che tutto sia destinato a svolgersi secondo percorsi prefissati. Eppure a un certo punto succede qualcosa di estremo e di apparentemente assurdo: appena lasciato il liceo, alcuni ex alunni diventano autori di uno dei più clamorosi crimini dell'epoca, il delitto del Circeo, in cui tre ragazzi della Roma "bene" sequestrarono seviziarono due ragazze (una di loro, Rosaria Lopez, morì, mentre l'altra, Donatella Colasanti, riuscì a salvarsi fingendosi morta). Edoardo Albinati era un loro compagno di scuola e per quarant'anni ha custodito i segreti di quella "mala educacion", che ora ha deciso di raccontare: per capire che cosa ci fosse di sbagliato in quella che era stata anche la sua formazione.

Il romanzo prende spunto da qui, ma non si ferma qui, inglobando - al contrario - una vasta mole di eventi, azioni, personaggi, temi, spunti riflessivi: adolescenza, sesso, religione, violenza, denaro, amicizia, vendetta; professori, preti, teppisti, piccoli geni e psicopatici, fanciulle enigmatiche, terroristi. Mescolando personaggi veri con figure romanzesche, Albinati ha costruito una narrazione che ha il coraggio di mostrare il lato in ombra delle cose.

Albinati, come è nata in lei l'idea di questo romanzo così ampio e polifonico?

«È affiorata, in modo peraltro assai vago, da uno scioccante evento di cronaca, e cioè quando Angelo Izzo, mio ex-compagno di scuola, appena più grande di me, uno degli autori del famigerato delitto del Circeo, è tornato trent'anni dopo quel delitto a uccidere di nuovo, una madre e la sua figlia adolescante, nel 2005. È solo lo spunto, e non l'argomento, del mio romanzo. Dal quel momento ho pensato di dover provare a raccontare non tanto quello mi distanziava dall'assassino, quanto, al contrario, ciò che avevamo e abbiamo in comune: il quartiere in cui siamo cresciuti, le nostre famiglie di gente perbene, l'educazione ricevuta, le palazzine e i villini borghesi, la scuola dove avevamo studiato e così via».

Qual è stata la gestazione del testo?

«È durata nove anni, molto diseguali e avventurosi, e interrotti da un periodo in cui non ho scritto quasi nulla, sopraffatto da guai personali. Ho riempito a mano parecchi quaderni e consultata un'infinità di libri, eseguito ricognizioni e sopralluoghi, intervistato gente… A inizio 2015 ho contato nel pc un centinaio di files e finalmento ho iniziato l'opera decisiva di montaggio, taglio e riscrittura. Un vero delirio, quel lavoro, a tempo pieno, vissuto in stato quasi sonnambolico, alla fine del quale mi sono ritrovato con circa 1.500 pagine di romanzo. Quindi in bozze, con l'aiuto di alcuni lettori professionali e non, ne ho tagliate 200».

Che cosa intendeva raccontare soprattutto?

«Un'adolescenza di maschi arroganti eppure fragili. La ricerca della propria identità costruita come un patchwok di modelli di riporto. L'attrazione e insieme repulsione verso le materie che ci venivano insegnate e verso i nostri professori, alcuni dei quali strampalati, altri formidabili. L'amicizia. Le sconvolgenti emozioni di un'epoca della vita e insieme della storia del nostro paese. L'attenzione ossessiva verso le immagini femminili che, in quella scuola esclusivamente maschile, erano come un miraggio. E quindi come da ragazzi sventati i personaggi del libro siano diventati adulti, fino ad oggi… facendo i conti con la vita».

Che cosa rimprovera all'impostazione educativa che ha sperimentato?

«Non rimprovero nulla alla scuola che ho frequentato tranne l'eccessiva indulgenza con cui venivamo trattati. Quella specie di perdono preventivo… di acquietamento paziente di ogni asperità, che crea più danni, secondo me, di quanti ne risolva. Non è vero che tutto si aggiusta, che basta un sorriso e un po' di buona volontà… certe cose vanno prese di petto, e subito».

Quali i "valori" che è felice di aver ricevuto?

«Anche se ad alcuni non sembrerà una prerogativa squisitamente religiosa, direi, l'arte del ragionamento, insistito, sottile. Che non si arrende facilmente. L'indagine curiosa del proprio cuore e di quello altrui. E al tempo stesso la sensazione netta che restino cose inspiegabili: molte, molte cose, al di là della nostra mente. E anche se non molto praticato, il valore del coraggio personale».

Il problema è la scuola cattolica in sé oppure la ricca borghesia delle scuole elitarie?

«Bene, non si può certo ignorare la seconda caratteristica, prerogativa delle scuole private, sebbene oggi si definiscano "paritarie". Ai miei tempi, poi, era predominante l'aspetto del prestigio sociale, della "distinzione". I miei genitori, ad esempio, ottime persone seppure prive di un particolare afflato religioso, mi iscrissero al San Leone Magno principalmente perché era una buona scuola, che garantiva continuità di studio e attrezzature sportive invidiabili e insieme pace, riservatezza, buon senso, insomma ordine, in un'epoca di molto disordine».

Pensa che la scuola possa continuare a trasmettere anche valori spirituali oppure dovrebbe proporsi altri obiettivi?

«La spiritualità è per me l'altra faccia della sensualità: sono inscindibili. Non riesco a concepire lo spirito puro così come una materia bruta. La grande pittura italiana è un perfetto esempio di questo. Ma anche la matematica, le scienze, il diritto, persino la geografia presentano entrambi gli aspetti: diciamo così, celeste e terrestre, astratto e concreto, che per me, lo ripeto, si fondono in una figura sola. Dunque è la scuola in quanto tale a non poter mai cessare di avere una funzione spirituale: se non avesse anche quella, non ne avrebbe alcuna. Fosse per me, e l'Italia non fosse l'Italia, l'ideale sarebbe la massima pluralità e libertà di indirizzi scolatici».

Come descriverebbe oggi il suo rapporto con la fede cristiana?

«Provando a sfilare il Cristianesimo dalla nostra cultura, si smaglia tutto quanto, non resta nulla. L'unico motivo di risentimento che nutro nei confronti della Chiesa di oggi è l'ineffabile, persino offensiva esclusione delle donne dal sacerdozio. Al tempo stesso, però, ammetto di non avvertire in me alcuna fede: se è un sentimento, non lo provo; se è un'idea, non la afferro. Ma più passa il tempo e più le immagini religiose, a partire da quella del martirio di Gesù, infondono in me una dolcezza misteriosa, e al tempo stesso risvegliano come nessun'altra cosa al mondo il mio desiderio di giustizia».

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