Al cimitero di Trieste i resti di Livio Lorenzon, caratterista-cult, rischiano di essere perduti

Conservati al cimitero di Sant’Anna potrebbero finire in una fossa comune. Per vent’anni fu un formidabile villain dello schermo

TRIESTE Tullio Kezich li chiamava i Militi Ignoti del Cinema. Sono i caratteristi, gli attori con ruoli di spalla. I caratteristi sono l'anima segreta del cinema, il mastice quasi invisibile che spesso tiene insieme il film. Che lo salva dal fallimento, o dalla noia, quando i registi o i protagonisti sono fuori fase.

Diamo oggi un nome (e forse una tomba), per una volta, a uno di questi Militi Ignoti, l’attore triestino Livio Lorenzon (1923-1971). Nei giorni scorsi, una segnalazione del lettore Maurizio Radacich pubblicata sul Piccolo ha ricordato che, se il Comune non interviene, i resti di Lorenzon al cimitero di Sant’Anna potrebbero finire in una fossa comune, scaduta da tempo la concessione decennale.

Ma Livio Lorenzon è stato un personaggio troppo singolare per non cogliere l’occasione di ricordare degnamente chi era. Se è vero che all’ombra di San Giusto sono nate poche celebrità della Decima Musa, è altrettanto vero che quando un triestino si innamora di quella Musa non la abbandona più. Basti pensare a Kezich appunto, a Cosulich, Sergio Amidei o Franco Giraldi.

Nella schiera va collocato anche Livio Lorenzon, che è stato un vero e proprio caratterista-cult. Le sue personificazioni sullo schermo hanno acquistato col tempo, con le rivalutazioni del cinema di genere da parte della critica meno paludata, un carattere quasi leggendario.

Dopo la seconda guerra mondiale, a Trieste, il giovane Lorenzon si adatta a ogni lavoro per sbarcare il lunario: scava buche per il rimboschimento del Carso, scarica in porto, allena la squadra ippica della base alleata. Ma presto sente che la sua vocazione è lo spettacolo. A Radio Trieste è prima speaker, poi attore brillante (diventa popolare con la macchietta triestinissima di Gigi Lipizzer). Nel 1952, con lo pseudonimo Elio Ardan entra nel cinema nel ruolo di reduce in “Ombre su Trieste” di Nerino Florio Bianchi, uno dei film di spionaggio all'epoca girati nella città occupata (produzione locale, al fianco della "mula” Ketty Burba, pellicola andata perduta e ricostruita a cura di Maurizio Radacich e Simone Starace per l’omaggio a Lorenzon nel festival “I Mille Occhi” 2014). L'insuccesso del film è pesante, ma Livio non si scoraggia e parte per Roma, dove invece lavorerà tantissimo.

Oltre 80 film comporranno la quanto mai variegata filmografia di questo formidabile “villain” di tutti i generi avventurosi. Di questo massiccio, calvo, baffuto, ferocissimo satanasso, re, generale, capo dei pirati, dei congiurati o comunque capobanda, genio del male, aguzzino, spia, spadaccino, gladiatore, mercenario del tempo e dello spazio, anche di quelli più lontani e immaginifici.

Cranio lucido, occhi saettanti, ghigno satanico, figura possente: questi gli inconfondibili caratteri della sua sgradevole, esagerata ma riuscitissima icona.

Per vent’anni Lorenzon non ha pari nel cinema italiano di genere come “cattivo” in circolazione. Già i soli nomi dei suoi personaggi danno l’idea della loro prepotenza: re Zagro, l'Olonese, Igor, Hatum, Guzman, il capitano Morales, il sergente Rodriguez, il tiranno Salmanassar. Se fa il moschettiere è un perfetto Porthos, se vive ai tempi e nei luoghi di Gesù naturalmente è Barabba.

Due sono i registi-artigiani che danno più spazio alla sua grinta inarrivabile, Luigi Capuano e Domenico Paolella, specialisti di film di cappa e spada, avventure marinare e peplum low-cost. Con Capuano, gira “La vendetta di Ursus” (1961), “Zorro e i tre moschettieri” (1962), “La vendetta dei gladiatori” (1964). Con Paolella, “I pirati della costa” (1960), “Il terrore dei mari” (1961), “Il segreto dello sparviero nero” (1961).

Insieme all’avventura spadaccina, il filone in cui è più assiduo è quello mitologico. Il primo film che fissa in modo indelebile la sua maschera è “La furia dei barbari” (1960), nel ruolo di Kovo, sadico violentatore e assassino che poi si vende ai longobardi e sposa una nobile veronese. In “Ercole contro Roma” (1964) è Mansurio, pretoriano sempre pronto a ripetere la fatidica frase: “I buoni sentimenti mi hanno sempre fatto schifo”. Ma Lorenzon attraversa tutti i generi avventurosi, dalla fantascienza (“La morte viene dallo spazio”, 1958, di Paolo Heusch) al western all’italiana, dove si fa chiamare Charlie Lawrence. In “Jim il primo” (1964), di Sergio Bergonzelli, è un fuorilegge che mette a ferro e fuoco una tranquilla cittadina governata da un inetto sceriffo.

Il grande cinema lo chiama in sole quattro occasioni, in commedie d'autore dove però disegna con grande finezza personaggi più misurati. Si tratta de “Il vedovo” (1959) di Dino Risi (è il ragionier Stucchi, complice di Sordi), “La grande guerra” (1959) di Mario Monicelli (è il burbero ma umano sergente Battiferri), “Straziami ma di baci saziami” (1966) ancora di Risi (è Artemio, padre di Pamela Tiffin) e de “Il buono, il brutto e il cattivo” (1966) di Sergio Leone (è ucciso all’inizio da Lee Van Cleef).

A Cinecittà era noto come un burbero dal cuore d’oro. Il regista Paolella ricorda che Lorenzon interruppe le riprese di un film per soccorrere un passerotto caduto con le ali spezzate. Ma il suo destino era nel mezzo delle battaglie di celluloide, dove lottava coraggiosamente contro daghe, dardi e pallottole, passando indenne tra mille pericoli. Più crudele fu il destino nella vita reale, che stroncò per una malattia la sua leggendaria energia a soli 49 anni, nel 1971, a Latisana. Traboccante di energia, passione e mestiere, Lorenzon è stato un prototipo. Un Uomo-cinema a cui va reso onore. —


 

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