Al Campiello Francesco Targhetta e “Le vite potenziali” in simbiosi con l’high-tech

Lo scrittore di Treviso, docente di lettere, è nella cinquina dei finalisti con la sua storia corale che ha al centro la generazione dei nerd quarantenni, la prima contaminata dall’alta velocitàin
05/05/10 Silea. Francesco Targhetta e il suo libro Fiaschi. © Paolo Balanza
05/05/10 Silea. Francesco Targhetta e il suo libro Fiaschi. © Paolo Balanza

TRIESTE Aveva già fatto parlare di sé con il romanzo in versi “Perciò veniamo bene nelle fotografie”, edito da Isbn nel 2012, una sorta di affresco generazionale, già dotato di una personalissima lingua con alle spalle maestri come Ottieri e Sereni. Ora Francesco Targhetta, nato a Treviso nel 1980 e docente di lettere a Vittorio Veneto, è tra i cinque finalisti del Premio Campiello con il nuovo libro “Le vite potenziali” (Mondadori), un vero e proprio romanzo. Anzi, un vero e proprio romanzo corale si potrebbe dire, dove è chiaro quanto l’autore abbia fatto sua certa tradizione, restituendoci una struttura compatta, a più voci e più temi.

C’è sempre una generazione al centro, quella di alcuni nerd quasi quarantenni e di come sia questa, in fondo, la prima stirpe ossimorica, “ibridi” dell’alta velocità, costretti a un altro modo di pensare e di vivere pur avendo conosciuto la qualità della vita pre hi-tech.

Targhetta è una sorta di Houellebecq nostrano, come se la celerità dell’argomento si dilatasse nella scrittura. Nulla resta rapido e in superficie, unico modo di far sopravvivere la letteratura: «Houellebecq è contato molto - dice - quanto meno perché con “Estensione del dominio della lotta” fu il primo a esplorare l’universo dei programmatori informatici. La scrittura lenta, ricca di subordinate e curata nel lessico, è forse stata un tentativo di riscatto, o più umilmente di difesa, dalla velocità in continua accelerazione del mondo dominato dalla tecnologia. In un simile paradigma la letteratura, secondo me, seguiterà a esistere, ma sempre più come forma marginale e minoritaria, ugualmente a tutto ciò che invita alla complessità».

Ciò che colpisce ne “Le vite potenziali” è questa simbiosi tra l’umano e il tecnologico, con rare forme di resistenza, pare che il mondo non aspettasse altro che l’hi-tech, una sorta di intensità al quadrato, ma molto metafisica. È per questo che il paesaggio è così presente nel suo libro? Pare l’ultimo appiglio alla materia…

«Questa simbiosi è in atto e ha cambiato il nostro modo di stare al mondo; viviamo in una sorta di realtà aumentata, per cui siamo qui e ora, ma contemporaneamente diluiti e dispersi in tutti i rivoli di vita legati alla nostra attività virtuale che ci indirizzano ogni minuto in mille direzioni diverse (le vite potenziali, appunto). Il paesaggio è tra i modi in cui il mondo fisico ci richiama alla sua feroce persistenza: nel libro spesso sporca e inquina le fantasie dei personaggi, visto che è un paesaggio particolarmente violentato – Marghera e ancor più le periferie padane – tenendoli ancorati alla realtà delle cose imperfette, di cui volevo far emergere, anche, la bellezza e la poesia».

Un altro dato originale è il nuovo profilo del nerd, più simile a un manager che a un introverso genio creativo…

«La figura del nerd è molto mutata negli anni, come già un bel saggio di Benjamin Nugent segnalava in “Storia naturale del nerd”. Essendo oggi al centro del nuovo modello tecnologico, l’informatico ha acquisito potere e prestigio sociale, mentre negli anni ’80 era solo sinonimo di goffaggine e genialità repressa. Alberto e Luciano incarnano due tipi diversi di nerd che, nel tempo, hanno reagito alla iper-tecnologizzazione pervasiva in modo opposto: il primo è diventato imprenditore e perciò si è piazzato in cima, il secondo è rimasto uno specialista della programmazione pre-Internet e perciò si è messo in disparte. D’altronde sono le stesse dinamiche di darwinismo sociale che già intravedeva Verga: alcuni salgono sull’onda del progresso, altri ne vengono travolti».

C’è inoltre una definizione perfetta di età adulta, “tarpata e sconcia”. È il compromesso dell’Occidente per il suo grammo di felicità?

«La definizione più bella dell’età adulta l’ho letta ne “La pura superficie” di Guido Mazzoni: gli ultraquarantenni, scrive, “sono qualcosa, hanno qualcosa e lo difendono”. La sconcezza, ai miei occhi, sta proprio in questa pretesa di verità: a un certo punto ci si rende conto che la propria vita si è messa così, inevitabilmente tarpata perché non più giovane, e la reazione istintiva è quella di rinnegare ogni possibile diversità e di non interrogarsi più su nulla. Si difende ciò che si è diventati: punto. Perciò si finisce per vivere quasi solo sui social, i quali sono costruiti secondo un algoritmo che non fa altro che riproporci ciò che già siamo e ciò che già pensiamo. Tutto il resto lo si rifiuta, perché rischia di rimettere in discussione ogni cosa. Non a caso amo stare in mezzo agli adolescenti, che vivono un’età in cui tutto è dubbio».

Il suo è un romanzo corale, ben strutturato, le voci maschili hanno obiettivi precisi, la carriera innanzitutto. Che mi dice delle voci femminili? A volte sembrano l’ultimo e l’unico rifugio umano o comunque la vera apertura alla vita.

«La volontà di scrivere un romanzo più aderente possibile alla realtà mi ha spinto a scegliere come protagonisti tre uomini: nelle aziende informatiche le donne sono ancora un’evidente minoranza. Tuttavia nel romanzo non mancano le figure femminili, che vanno a formare un gruppo in un certo senso speculare a quello maschile; tra loro spicca Matilde, che, pur nelle sue fragilità, è il personaggio più coraggioso del libro. In effetti gli uomini del romanzo sentono, a volte con fastidio, altre con sollievo, che le donne sono più vicine a un nucleo di vita autentico. Meno corrotto».

Ancora più interessante è il profilo di chi non sceglie la consuetudine: famiglia, figli e villette a schiera. Però è una scelta che costa, scrive: “perché tradire fino in fondo il mondo traditore è un’impresa che non si riesce a portare a termine”.

«A me sembra che oggi nel mondo si debba stare bene: o è così o non ci si sta. Se si sta male, la colpa è solo propria: si è loser, perdenti. E ciò è insopportabile per chiunque. Non ci sono più, come per Eco, apocalittici e integrati. Siamo tutti integrati, anche i più critici e riottosi. Il tardo capitalismo non prevede vie di scampo, se non nel sonno, che è l’unica parentesi delle nostre vite in cui non consumiamo. Tradire fino in fondo, dunque, vorrebbe dire farsi fuori, morire: dormire tutto il tempo».

Che parte ha avuto il Nordest in questa trama?

«Fa da specchio ai personaggi, con il suo territorio uniformato ovunque. Fa eccezione Marghera, che ha una sua unicità. Per il resto ci sono scene a Francoforte, Parigi, Den Bosch, Helsinki, Milano, Salisburgo. Ma l’impressione è di non muoversi mai: questo è l’effetto della geografia frenetica che viviamo. Come trottole, in fondo».

Lei chiude il libro con un anelito di speranza, c’è qualche chance per far sì che la vita sia più vita e non vita possibile?

«Non so se ci sia qualche chance, ed è perciò che rimane la speranza. Se c’è, è legata al tentativo di ritrovarsi assieme (nei circoli, nei quartieri, nelle piazze), di fare gruppo, di condividere, di spezzare l’atomizzazione delle nostre vite». —




 

Riproduzione riservata © Il Piccolo