Addio Valentino Zeichen, il dandy della poesia italiana
TRIESTE A tre giorni dalla scomparsa di Yves Bonnefoy, ci lascia un altro poeta, Valentino Zeichen, morto martedì 5 luglio a Roma alla clinica Santa Lucia, dove stava facendo la riabilitazione dopo un malore. Zeichen era naturalizzato romano, ma proveniva da Fiume dove era nato nel 1938. Ed è passato anche a Trieste, subito dopo la guerra, con l'esodo istriano, soggiornando in un campo profughi.
Chi l'ha conosciuto sa quanto Zeichen fosse provocatore, originale, soprattutto abitato dal contrasto, sia nella vita che nell'arte. Vestiva i panni del dandy, salvo abitare in una sorta di baracca sulla via Flaminia davvero fatiscente. Al contempo frequentava circoli, nobili e salotti mondani. Gli era stata conferita da poco tempo la Legge Bacchelli. Lui stesso si descrisse alla perfezione: «Io sono il protagonista di "Una Cena Elegante" di Robert Walser. Un estraneo che arriva in un posto, si siede, si vede offrire cibo, sorrisi e sigari e poi va via senza che nessuno abbia veramente capito chi sia».
Invece la poesia ha sempre saputo perfettamente chi fosse, a iniziare dai suoi esordi con "Area i rigore", del 1974, fino all'"Oscar Mondadori Poesie 1963-2014", passando attraverso il bellissimo "Ogni cosa a ogni cosa ha detto addio" (2000). Ha sempre osservato la vita con apparente distacco, con eleganza e ironia in quadri dal sapore crepuscolare.
Soprattutto la sua poetica ha contemplato il dondolio del tempo. E il paesaggio romano. Un paesaggio raccolto in una città che è anche universo perturbato, pieno di piccoli e grandi allarmi, ora detti, ora lasciati intendere con composta finezza, anche nella parola secca, volgare, masticata nella cornice di un canto che, nello stile talvolta aforistico e didascalico, non segue la melodia della voce. E in questo stridere d'espressioni trae la sua energia. E infatti Zeichen fu contro corrente anche in questo, nei momenti in cui la poesia italiana si concentrava sulle eccellenze del significante, Zeichen produce canti che vanno dritti alla sostanza, a un'acquisizione cognitiva (e non formale). La provocazione, appunto, era la sua forza. Dandy fuori e dentro, lontano dai più comuni immaginari collettivi, come l'idea di lavoro, casa e famiglia. Piuttosto una dimora-baracca e sandali ai piedi, sottolineando però la sua vocazione conservatrice. Insomma, un paradosso.
D'altra parte non fu una vita facile la sua: la guerra, l'esodo, la morte della madre e l'abbandono, da parte del padre, in un orfanatrofio di Firenze.
Alla domanda cosa avesse percepito dell'affetto paterno, rispose: «L'amore per le scarpe bicolore, che mio padre adorava». Si può allora capire anche quella sorta di anaffettività dei suoi versi, o meglio, quanto si affidasse alla ragione piuttosto che al sentimento. Eppure ci ha regalato l'oscura grazia delle cose, una lirica ferita, scheggiata in cose che, inevitabilmente, ad ogni cosa dicono addio.
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