«Addio mio Capitano»: se n’è andato Sandro Chersi lo stratega della Barcolana
È morto dopo lunga malattia una delle figure leggendarie della vela triestina. Aveva 72 anni, era un uomo di montagna che aveva sposato il mare
Sandro Chersi saluta il figlio sull'elicottero
TRIESTE Servirebbe uno spritz bianco per raccontare Sandro Chersi, morto ieri a 72 anni, dopo una lunga malattia. Non per “farsi coraggio” di fronte a un compito così difficile e sicuramente non esaustivo, ma per rendere omaggio a quell’immagine che è stata immutabile per anni, ed ora è per sempre: il capitano Chersi che guarda il mare, che ha studiato le isobare, ed è sullo stipite della porta alla Società velica di Barcola e Grignano, con un bicchiere di bianco in mano, che racconta.
Ancora meglio: Sandro Chersi che insegna, e in una frase magicamente unisce tutta la sapienza dell’andar per mare con un aneddoto, e l’interlocutore non capisce più se si trova nella realtà, o proiettato in una maldobria, in quel profondo spirito di Trieste, la cui essenza è un misto di eleganza e rispetto per la tradizione, vita vissuta e sapersi arrangiare in tutte le situazioni. I racconti di Sandro Chersi sono terminati ieri: il Comandante ha mollato gli ormeggi - come avrebbe amato dire con molta enfasi, ma sorridendo sotto i suoi iconici baffi - dopo una lunga malattia che ne ha sfiancato il fisico, ma non la mente e soprattutto non lo spirito. Lascia la moglie, due figli e i nipotini, ma in realtà lascia tutto il popolo della vela.
Una delle grandi anime della Società velica di Barcola e Grignano se ne è andata nel giorno della presentazione della 52.a edizione della Barcolana, lasciando il compito di abbassare, in segno di lutto, le bandiere sul pennone più alto. Il simbolismo di tutto questo, a dire il vero, Sandro lo avrebbe apprezzato parecchio.
Dicevamo del bicchiere di bianco, , del panino con la mortadella, dei sardoni “impanai”, del dentice pescato in regata. O della cena con Gassmann a Genova, assolutamente leggendaria, delle regate e dei porti più belli, e di quel ritardare a rientrare dai trasferimenti perché a Capri e a Portocervo - mai in approdi meno affascinanti - faceva sempre brutto tempo, e bisognava aspettare che passasse per poter rientrare a Trieste. A questo punto dei racconti, i bicchieri forse erano diventati due, o forse sarebbe uscito dalla tasca “el cicchin”, quel mozzicone di sigaretta che serviva anche per vedere da dove soffiava il vento, che si fosse in mezzo all’oceano sul Gatorade - quando ci aveva rimesso una falange in regata e nell’ospedale di Miami quasi lo cacciavano via, perché faceva suonare gli allarmi per quella sigaretta fumata di nascosto - nel golfo del Leone o in Adriatico. Ad esempio durante la Rimini-Corfù con Diego Paoletti, sulle tante e bellissime barche di blasonati armatori, sull’Ornella terza, su Aria, o si fosse a Barcola, nella sua Svbg, quella per cui combatteva sempre e sopra a tutto, portando con se’ lo spirito originario, facendosi interprete e testimone del passato, e tramandandolo ogni giorno.
«Abbiamo perso il nostro Nord e il nostro Sud - ha dichiarato oggi il presidente della Svbg, Mitja Gialuz - ma come capita quando i grandi uomini se ne vanno, ci consoliamo ringraziando di averlo conosciuto, e di aver condiviso con lui esperienze e momenti indimenticabili. Di aver imparato da lui i segreti del vento e del mare. Ogni velista da Barcola alla Sacchetta e in molti circoli dell’Adriatico, ha un proprio episodio da raccontare sul comandante Chersi e spetta alla Società velica di Barcola e Grignano mantenerne la memoria e l’onore».
Già, l’onore. L’onore di essere un uomo di mare. «Il bravo marinaio - diceva - è quello che porta la barca a casa dopo la tempesta. Il miglior marinaio è quello che ha previsto la tempesta, è rimasto a terra ed è qui al bar, a guardare quel bravo marinaio che tenta di salvare barca e la pelle». I suoi corsi di vela erano così: aneddoti, profonda sapienza, scienza, tecnica e una gran esperienza. Se gli chiedevi che tempo avrebbe fatto, iniziava dalle isobare, sempre. Descriveva l’evolversi della perturbazione come se fosse un romanzo di guerra, con nuvole e venti i protagonisti. Se gli chiedevi di fare un nodo, subito diventava altro: era il perché di quel nodo, era il come e il quando. Era l’essenza.
Di Sandro Chersi la cosa più facile da dire è che tutta, ma proprio tutta la gente di mare di Trieste, ha navigato con lui. C’è chi l’ha fatto per davvero, in oceano, in Adriatico o anche in crociera in Dalmazia, e chi l’ha fatto solo nei suoi racconti o nelle sue lezioni, perché qualche generazione di velisti triestini deve a lui la passione, la conoscenza della vela e del mare, e anche una più semplice patente nautica. Il parabordo nero per simulare l’uomo in mare rimarrà indelebile, così come il racconto della manovra di avvicinamento, il lancio del salvagente. Vera marineria.
La sua storia prima della vela, Trieste l’ha scoperta recentemente: da qualche tempo, su Facebook, Sandro Chersi raccontava la sua vita in piccole pillole. A l’Oblò del Capitano Chersi, che da oggi si è trasformato in un prezioso documento, Sandro Chersi aveva affidato i suoi ricordi, anche dolorosi, partendo da quand’era bambino. Da quell’oblò, Trieste così aveva scoperto che il comandante Chersi in realtà era un uomo di montagna che veniva dalla Carnia. Rimasto orfano, era arrivato a Trieste, era stato adottato, istruito. Aveva frequentato l’Istituto tecnico Nautico, e da qui aveva iniziato a navigare su mercantili. Lo aveva fatto a lungo, in molti mari e oceani, con le carte nautiche, le rotte da disegnare, fino al pulsante approdare nei porti.
Al Sandro Chersi navigatore per professione segue poi poi l’immagine di Sandro assicuratore, una parentesi di stabilità a terra, ma il mare, vissuto dalla riva, era davvero troppo lontano. A quel punto, entrano nel racconto gli uomini della Società velica di Barcola e Grignano, le prime regate, i grandi risultati soprattutto nella vela d’altura, i tanti charter e trasferimenti, la scuola di vela in via Barbariga e poi, negli anni recenti, l’Accademia di vela della Barcolana, e l’instancabile l’impegno - anche quando il fisico era stanco e la voce quasi persa - a sostenere gli organizzatori della regata nel mantenere salda la rotta, nel far della tradizione il futuro, nel rendere epico il passato, e il mare un’arte di essere. —
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