Addio Lemmy, anima rock dei Motörhead

LOS ANGELES. È morto a Los Angeles per un cancro fulminante il leader del gruppo britannico Motörhead, Ian Fraser Kilmister. Per tutti, semplicemente Lemmy. Aveva 70 anni. Salutando su Facebook il loro «nobile e poderoso amico», i musicisti della band hanno annunciato che il gruppo si ferma per sempre. Lui amava dire che era nato il 32 ottobre del 1943, non il 24 dicembre del 1945, a Stoke-On-Trent nello Stafforshire. Un mese fa era scomparso l’ex batterista dei Motorhead, Phil Taylor detto Philthy Animal.
di ALESSANDRO MEZZENA LONA
Sul palco partiva da una frase, sempre la stessa: «We are Motörhead and we play rock’n’roll». E in quelle parole c’era tutto Lemmy. La sua vita allergica alle regole, la musica tirata a cento chilometri all’ora. Il basso suonato come fosse una chitarra ritmica. La voce incrostata di rabbia, bourbon e nebbia. Il cappellaccio e gli stivali da cowboy, i basettoni stile ’800, i calzoni attillati, le medaglie e i simboli prussiani sulla camicia nera. E quel nome, Lemmy, che ricordava i suoi giorni da “roadie”. Quando si avvicinava alle persone e chiedeva, con l’accento gallese: «Lemme (let me) a fiver», ovvero «prestami una banconota da cinque sterline». Qualcun’altro, però, dice che il soprannome gli era stato affibbiato ai tempi della scuola, per etichettarlo come “caprone”.
Lemmy era figlio di un cappellano della Royal Air Force. Un predicatore che, però, «non ho mai conosciuto». Visto che se n’era andato di casa quando lui aveva tre mesi. Esperienza terribile per il giovane Kilmister, tanto da portarlo ad affermare, molto tempo dopo, che «la religione organizzata, come istituzione, è quanto di più malefico e diabolico possa esistere».
Che la musica fosse la sua strada maestra lo aveva capito già ai tempi della scuola. La sua prima band si chiamava Sundowners. Poi erano arrivati i Sapphires, i Rainmakers, i Motown Secty («la prima degna di nota», diceva lui) e i Rockin’ Vicars. La passione per la chitarra era legeta alla leggenda di Jimy Hendrix, che aveva visto molto da vicino: «Ti sedevi e rimanevi affascinato da questo mancino. Era semplicemente fantastico, e non credo potrà mai esserci un altro artista del genere», confessava.
Nel 1971 aveva preso forma la prima, importante collaborazione di Lemmy con gli Hawkwind, leggendario gruppo space rock inglese. «Io e Dik Mik, il tastierista, uscivamo insieme - raccontava -. Lui pensava di trasferirsi in India per seguire la sua via spirituale. Non è andato oltre Gloucester. Quando ha finito i soldi, è tornato indietro. E visto che era il mio miglior amico, mi ha presentato agli Hawkwind. Io avrei fatto volentieri la parte del chitarrista, ma siccome il bassista era sparito, ho preso il basso e mi sono messo a suonare».
E con gli Hawkwind, Lemmy ha fatto un bel pezzo di strada. Collezionando successi come “The watcher” e “Silver machine”, arrivato fino al terzo posto della classifica britannica dei singoli. Ma l’avventura con la band doveva finire nel 1975, quando Kilmister si ritrovò in carcere in Canada con l’accusa di avere assunto sostanze illegali. Cioè, anfetamine. Ma lui ci scherzava su, come sempre. «Era il governo canadese a dire che si trattava di sostanze illegali. E se fosse stata Coca Cola? In ogni caso, sono rimasto dentro una notte sola perché il mio sostituto non sarebbe mai arrivato in tempo per suonare».
Il sogno dei Motörhead ha preso forma in quel momento. Rifacendosi, nel nome, al titolo dell’ultima canzone scritta da Lemmy per gli Hawkwind. E a un certo effetto provocato dalle anfetamine, ovviamente. Con il chitarrista Larry Wallis e il batterista Lucas Fox, la band, chiamata all’inizio Bastard, suonava solo cover di altri gruppi e aveva debuttato dal vivo il 20 luglio del 1975 alla Roundhouse di Londra. L’importante, per Lemmy, era far sapere al mondo della musica che non era finito, che iniziava una nuova avventura. In seguito, nel gruppo sarebbero entrati il batterista Phil Taylor e il chitarrista Fast Eddie Clarke.
Da allora, il sound dei Motörhead ha cominciato a correre a cento all’ora. Seminando per strada un bel po’ di dischi, da quello di debutto, “Motörhead” del 1977, all’ultimo, “Bad magic” del 2015. Senza dimenticare i live “No sleep ’til Hammersmith” e “Better Motörhead than dead”. La band è sempre piaciuta sia ai fan del metal che a quelli del punk. Anche se Lemmy ammetteva di sentirsi «molto più in sintonia con il suond di gruppi quali The Damned e Sex Pistols che di Judas Priest e Black Sabbath». Certo è che, nel giro del metal, la band si era fatto un bel po’ di estimatori: dai Metallica agli Slayer, dagli Overkill ai Sepultura.
Lemmy non ha mai amato chi lo voleva mummificare nella parte del mito. E l’ha ripetuto nella sua autobiografia “White line fever”, tradotta in italiano con “La sottile linea bianca”. Ai giornalisti troppo ossequiosi e cerimoniosi diceva: «Se tutti quelli che indossano una maglietta dei Motörhead, senza sapere nemmeno chi siamo, avessero comprato i nostri cd, oggi me la potrei ridere della vita».
Non amava le interviste. Soprattutto per le «fottute» domande di chi conosce a malapena la musica. E se gli chiedevano quali dischi amava ascoltare, pensando di sentirsi citare chissà quale oscura, demoniaca band metal, rispondeva candido: «Quelli dei Beatles, di Little Richard e Chuck Berry». Solo vero rock’n’roll, insomma.
alemezlo
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