Addio Francesco Rosi, il regista che raccontò l’Italia senza bugie

ROMA. È morto a Roma il regista Francesco Rosi. Era nato a Napoli il 15 novembre del 1922. Il grande vecchio del cinema italiano sarà celebrato in una cerimonia civile domani mattina, dalle 9, alla Casa del cinema di Roma. Alle 12 lo ricorderanno i suoi amici più cari.
di PAOLO LUGHI
Con Francesco Rosi, autore simbolo e innovatore del nostro cinema di impegno civile, se ne va uno degli ultimi sopravvissuti, uno degli ultimi geni di quella straordinaria e irripetibile stagione che fu il grande cinema italiano anni ’50-’70. In quel periodo, erano contemporaneamente in attività una dozzina di registi mitici che hanno sfornato praticamente solo capolavori, e hanno raccolto Oscar, Leoni, Palme, Orsi e Pardi d’oro più di qualsiasi altro Paese di ogni epoca. L’elenco di questi nomi, a leggerlo oggi, fa mozzare il fiato tanto appare maestoso: Rossellini, De Sica, Visconti, Fellini, Antonioni, Pasolini, Petri, Ferreri, Germi, Leone, Bertolucci, Olmi, Bellocchio (solo gli ultimi tre ancora in vita), per non citare che i massimi.
Fra i protagonisti di quella grande avventura, iniziata col Neorealismo ed esauritasi con gli anni ’80 (quando il solo Nanni Moretti sembra all’altezza di quelle personalità), con una lunga benché non troppo prolifica carriera (iniziata al fianco di Visconti) Rosi è stato il padre nobile e l’esponente più importante del cosiddetto cinema civile, che segnò in particolare gli anni ’60 e ’70 della nostra produzione. Grazie a formidabili capolavori come “La sfida” (1958), “Salvatore Giuliano” (1962, Orso d’argento a Berlino), “Le mani sulla città” (1963, Leone d’oro a Venezia), “Il caso Mattei” (1972, Palma d’oro a Cannes), “Lucky Luciano” (1973), Rosi ha costruito un nuovo modello di cinema “impegnato”, teso a raccontare con stile moderno e originale, e allo stesso tempo popolare, emozionante, potente (davvero “per tutti”), l’attualità italiana nei suoi episodi più controversi e significativi.
Per tutto ciò, l’opera di Rosi ha influenzato generazioni di cineasti in tutto il mondo grazie al metodo, al rigore morale e alla capacità di fare spettacolo su temi sociali d’attualità. Rosi è stato accostato al Neorealismo, tuttavia, rispetto a quel fenomeno, il suo cinema rappresenta un’istanza di superamento, per la volontà di mescolare una forte propensione a raccontare eventi, persone e ambienti reali, con quella che Fellini definì «la grande lezione artigianale del cinema americano».
Nei confronti del cinema “politico” a lui successivo, Rosi vanta invece un merito: quello di aver sempre preferito alla semplificazione ideologica di molti suoi epigoni, il duro lavoro di documentazione che sta alla base dei suoi film. Una puntuale lezione di storia che coincide con una grande lezione di stile, capace di fornire linfa agli altri più recenti suoi importanti lavori, come “Cadaveri eccellenti” (1976), “Cristo si è fermato a Eboli” (1979) e “Tre fratelli” (1981).
Nato nel 1922 a Napoli, in gioventù vicino agli esponenti della cultura partenopea del dopoguerra (Patroni Griffi, La Capria, Ghirelli, Napolitano), Rosi si formò alla scuola di Visconti, di cui fu aiuto-regista per “La terra trema” (1948), e fu quindi aiuto-regista di Antonioni e Monicelli. Si affermò come autore a Venezia nel 1958 con “La sfida”, che ottenne il Premio speciale della giuria. In quel film, girato nel mercato ortofrutticolo di Napoli, come nel successivo “I magliari” (1959), ambientato tra venditori di tappeti ai limiti della legalità, è già presente quel dato cronachistico che, filtrato dalla finzione drammatica, costituisce la peculiarità del suo cinema. In “Salvatore Giuliano” (1961) l’uso di materiale di repertorio caratterizza uno stile da reportage giornalistico di rara efficacia, inaugurando un nuovo tipo di cinema rivolto a capire il presente anche quando parte da materiali storici.
Nel 1963 Rosi ottiene la consacrazione trionfando col Leone d’oro a Venezia per “Le mani sulla città”, film-denuncia delle speculazioni e degli scandali durante gli anni della ricostruzione e del boom economico. Torna a Venezia nel 1970 con un altro film di forte impegno civile, “Uomini contro”, tratto da “Un anno sull’altopiano” di Lussu, fornendo uno sguardo privo di retorica sulla Prima Guerra Mondiale.
“Il caso Mattei” (1972), storica Palma d’oro a Cannes, segna il ritorno allo stile del reportage ricostruendo la vita controversa del presidente dell’Eni (interpretato da Gian Maria Volonté, pure premiato). Poi “Lucky Luciano” (1975), nuovamente con Volonté, racconta gli ultimi anni di vita che il boss trascorre in Italia portando nella tomba i suoi segreti.
In seguito, per il suo alto cinema d’impegno, Rosi si rivolge spesso a testi letterari. In “Cadaveri eccellenti” (1976), tratto da Sciascia, si sofferma sulla spirale del terrorismo e le compromissioni del potere, mentre da Carlo Levi trae “Cristo si è fermato a Eboli” (1979). Rosi realizza quindi “Tre fratelli” (1981), in cui riflette sugli anni di piombo, e in seguito “Carmen” (1984) dall’opera di Bizet. È poi la volta di “Cronaca di una morte annunciata” (1987), tratto da Márquez, “Dimenticare Palermo” (1990), scritto con Tonino Guerra e Gore Vidal, e “La tregua” (1997) da Primo Levi, in concorso a Cannes.
In occasione del recente doppio omaggio consecutivo alla Mostra di Venezia (il Leone d’oro alla carriera del 2012 e il restauro di “Le mani sulla città” nel 2013), la sua lezione è riemersa forte e decisa: «Fare cinema – aveva detto - significa contrarre un impegno morale con la propria coscienza e con lo spettatore. Gli si deve l'onestà di una ricerca della verità senza compromessi. Più ci si addentra nel reale e più si ha coscienza che la certezza del vero e del giusto non esiste. Ma quel che conta è la nitidezza della ricerca».
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