Addio Enzo Bettiza lo scrittore esule critico dei comunisti
Nato a Spalato è morto ieri all’età di 90 anni Legato a Trieste, nel 2008 ebbe il Sigillo d’Argento

Enzo Bettiza a Cortina d'Ampezzo in una foto d'archivio del 9 agosto 2005. MARTINA CRISTOFANI/ANSA/
È morto ieri all’età di 90 anni il giornalista e scrittore Enzo Bettiza. Nato a Spalato, in Croazia, nel 1927, esule nel dopoguerra, Bettiza è stato un protagonista di primo piano del giornalismo italiano del secondo Novecento, ed è sempre stato legato a Trieste, luogo di riferimento per tante narrazioni.
Specie negli anni della Guerra fredda, quando il comunismo sovietico rappresentava una presenza pervasiva, verso cui molti in Occidente simpatizzavano, la voce fortemente critica di Enzo Bettiza è stata un punto di riferimento importante. Lui, infatti, quel comunismo lo criticava, e non poco, perché l'aveva conosciuto da vicino. Così è diventato tra i censori più duri del sistema politico dell’Est europeo, quando invece il mito sovietico ancora riusciva a rappresentare per tanti un’attrattiva.
Il suo cammino nel giornalismo era iniziato al settimanale "Epoca", poi nel 1957 ci fu l’approdo alla "Stampa" di Torino, come corrispondente da Vienna e in seguito da Mosca. Proprio nella capitale russa matura la sua osservazione del socialismo reale, che raccontava ai lettori italiani. Nessuno come lui sapeva descrivere vicende e personaggi della Mitteleuropa finita nell'orbita sovietica.
Caratterizzato da un temperamento non facile, Bettiza nel 1964 entra in conflitto con l’allora direttore Giulio De Benedetti, a sua volta poco incline al compromesso: ne scaturisce il licenziamento del giornalista. Dopo trent’anni, però, Bettiza ritornerà al quotidiano torinese, da editorialista e commentatore politico, senza più lasciarlo.
In precedenza, tra il licenziamento e il ritorno, dal 1964 al 1994, fu per un decennio al "Corriere della Sera" (da cui andò via in polemica con la svolta a sinistra voluta dall’allora direttore del quotidiano di via Solferino, Piero Ottone) e poi, nel decennio successivo, al "Giornale", che fondò nel 1974 con Indro Montanelli. Anche qui però ci sarà una divisione, innescata dal giudizio su Bettino Craxi: Bettiza ne fu politicamente attratto, Montanelli invece no. Nella vita del giornalista scomparso c’è stata anche un lungo impegno parlamentare, con la teorizzazione dell’incontro tra la cultura liberale e quella laburista: dal 1976 al 1979 come senatore e dal 1979 al 1989 come eurodeputato, prima con i Liberali e poi con i Socialisti. All’apparire della Lega Nord fu tra i pochi, nel giornalismo, a prendere sul serio Umberto Bossi. Un conservatore, Bettiza, ma che sapeva leggere, con acume e lungimiranza, i fenomeni e i mutamenti politici.
A dare per prima la notizia della scomparsa di Bettiza è stata ieri proprio "La Stampa", il quotidiano per il quale aveva più a lungo lavorato, offrendo le sue interpretazioni del sommovimento che scuoteva, dapprima lentamente e poi più forte, il Vecchio Continente.
Il quotidiano torinese gli ha reso onore sottolineando, sulla sua pagina on-line, che Bettiza è stato «la prova vivente che, per diventare un grande del giornalismo, non serve far leva sulla simpatia: contano di più altre doti, professionali e umane. La coerenza con la propria storia, anzitutto». E quella di Bettiza «è passata attraverso grandi drammi che ne hanno reso aspra, ironica e in qualche caso feroce la descrizione di come va il mondo».
Gli inizi della vita di Enzo Bettiza furono piuttosto avventurosi. Nato nato a Spalato da una famiglia italiana dell’alta borghesia, che dopo la fine della Seconda guerra mondiale si trasferisce, profuga dalla Dalmazia, dapprima a Gorizia e poi a Milano, non ancora ventenne sopravvive per miracolo a una grave malattia. Per un certo periodo campa di espedienti: per sbarcare il lunario, è anche contrabbandiere e venditore di libri a rate (come racconterà lui stesso), sognando però di diventare uno scrittore di successo. Cosa che in seguito sarebbe accaduta.
Accanto al giornalismo, infatti, Bettiza ha costruito nel corso dei decenni una prestigiosa carriera di scrittore, culminata nel 1996 con l'assegnazione del premio Campiello per il romanzo-saggio “Esilio”. Con quest'opera l'autore coronava la sua lunga, fosca riflessione sulla storia e i destini dell'Europa, già iniziata (e poi proseguita) nei volumi di taglio più giornalistico (“Il diario di Mosca”, 1970; “L'anno della tigre”, 1987), nei saggi (“Mito e realtà di Trieste”, 1966; Lib/Lab, 1979), ma anche nella produzione narrativa vera e propria (“La campagna elettorale”, 1953; “Il fantasma di Trieste”, 1958; “I fantasmi di Mosca”, 1993; “Il libro perduto”, 2005). Tra le opere degli ultimi anni vanno ricordate “Mostri sacri” (1999), “Corone e maschere. Ritratti d'Oriente e d'Occidente” (2001), “Viaggio nell'ignoto. Il mondo dopo l'11 settembre” (2002), “1956. Budapest: i giorni della rivoluzione” (2006).
Il suo ultimo libro, “La distrazione”, pubblicato da Mondadori nel 2013, intendeva essere la prima parte di un dittico che a questo punto, a meno che le carte dello scrittore ne svelino il prosieguo, sarà destinato a rimanere incompiuto. Il protagonista, Peter Jarkovi, rappresentava forse, almeno in parte, un alter-ego dell'autore, essendo un giramondo arrivato al traguardo dei novant'anni il 31 dicembre del 2000. Proprio mentre sfuma tra le nebbie dei ricordi quello che è stato definito "il secolo breve", lui, che si è ritirato a vivere sulla splendida isola di Brazza, di fronte a Spalato, vive ormai come «un misantropo taciturno e pressoché sereno». Ha visto tutto, si è trovato al centro della Storia, forse suo malgrado, ma non si è lasciato travolgere dalla vertigine del Novecento.
In fondo, i personaggi dei libri di Bettiza - che siano, di volta in volta, i "fantasmi di Trieste" oppure i loro parenti stretti, i "fantasmi di Mosca" o, ancora, le anime alla deriva raccontate in "Esilio" - sono tutti così, un po' come è stato lui: incapaci di legarsi al carro di un solo padrone, refrattari a sposare un'ideologia che sotterri tutte le altre, abilissimi, al contrario, a guardare con occhi limpidi, critici eppure appassionati, il magma della Storia che scorre accanto a loro.
Per il suo profondo legame con Trieste, nel 2008 la Provincia gli aveva assegnato il Sigillo d'Argento. Anche se, cinquant'anni prima, quando era uscito “Il fantasma di Trieste”, mentre intellettuali come Claudio Magris, Tullio Kezich, Bruno Maier, Guido Botteri, lo avevano capito e apprezzato, l'analisi critica dell'irredentismo contenuta in quel libro non era stata digerita affatto da chi era più legato a certi ambienti nazionalistici.
Una volta Enzo Bettiza, parlando di sé, aveva confessato proprio al nostro giornale: «Io sono un esule nel più completo senso della parola: un esule oganico più che anagrafico, uno che si sentiva già in esilio a casa propria, molto prima di affrontare la via dell'esodo effettivo nella scia delle grandi migrazioni che, verso la fine della Seconda guerra mondiale, dovevano stravolgere la carta etnica e geografica dell'Est europeo. Fin dai tempi in cui ero stato costretto a spostarmi di continuo tra il confino scolastico di Zara e l'ambiente nettamente più slavo e più familiare di Spalato, mi sono trascinato addosso il disagio di un ragazzo bilingue, sdoppiato, spesso quasi estraneo a se stesso». Una pluralità di radici che si sarebbe tradotta in lui in un sano spirito critico e in una grande vivacità intellettuale, di cui ora si sentirà la mancanza.
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