Addio all’attore Carlo Delle Piane 70 anni di carriera, da Totò a Steno

Carlo Delle Piane è morto ieri a 83 anni. Nato a Roma il 2 febbraio 1936, ha attraversato la storia del cinema sin da ragazzino quando da studente fu scelto da De Sica e Duilio Coletti per interpretare il ruolo di Garoffi nel film “Cuore” del '46. Da allora ha girato 110 film al fianco dei più grandi artisti del cinema italiano. Domani sarà allestita al Policlinico Gemelli di Roma dalle 11.30 alle 14 la camera ardente, mentre le esequie si svolgeranno alle 15 alla chiesa degli Artisti in piazza del Popolo a Roma.
Il suo modello era Buster Keaton: «Asciutto, essenziale, con un modo di recitare contenuto, sotto le righe». Eppure, più che per questa speciale ispirazione, Carlo Delle Piane rischiava di essere ricordato solo per i tanti ruoli nelle commedie brillanti, per nomi e soprannomi come il “Pecorino”, quando era stato il figlio di Aldo Fabrizi nella “Famiglia Passaguai”, o come Cicalone, quando aveva affiancato Alberto Sordi in “Un americano a Roma”. Il merito di averlo liberato dall’etichetta di caratterista va a Pupi Avati che, nel 1983, cedendo alle insistenze del fratello Antonio, lo sceglie per la parte del professore timido di “Una gita scolastica”, il ruolo in cui si riconosceva di più: «Non avevo nessuna voglia di vederlo, ma Antonio, che lo aveva conosciuto al Filmstudio, insisteva nel dirmi che avrei dovuto fargli un provino. Così lo vidi e lo scritturai per “Tutti defunti tranne i morti”».
Nell’autobiografia “La grande invenzione” (Rizzoli) Avati rievoca il primo faccia a faccia: «Un giorno nella sartoria dove stiamo provando i costumi per tutti gli altri attori, si apre una porta e si appalesa Delle Piane. È vestito da Marlowe, con l’impermeabile, il cappello, la sigaretta pendula. Mi fissa, in quel suo buffo travestimento. Conciato così è molto divertente e scoppio a ridere. E quando ridi le resistenze vanno a farsi benedire».
Risale a quella gran risata l’avvio del sodalizio tra l’attore scomparso e il regista che oggi lo piange con affetto: «Era un essere umano molto ricco, una persona fortemente religiosa, con una grande interiorità». La prova della svolta, in “Una gita scolastica”, arrivò grazie a una bugia bonaria: «Fu un trucco di mio fratello - spiega Avati -, il patto con il produttore Luciano Martino era che gli attori fossero tutti sconosciuti, così Antonio mise in testa a Delle Piane una parrucca bionda. Poi, però, guardando le foto di scena, Martino lo riconobbe, si arrabbiò moltissimo, lo vedemmo arrivare come una furia sul set, a Porretta, voleva che rigirassimo tutto daccapo».
Il successo del film, storia del professor Carlo Balla che si illude di fare breccia nel cuore della bella professoressa Serena Stanziani (Tiziana Pini), veniva proprio dall’intuizione di Avati, dal suo aver colto, nello sguardo di Delle Piane, quel disagio comune «a tutte le persone che hanno un fisico con qualche problema estetico. Come se avvertissero la necessità di essere risarciti dalla vita, come se dovessero dimostrare qualcosa. Il personaggio era lui, gli dissi solo di essere se stesso». In tutti i film che vennero dopo, da Noi tre a Festa di laurea, da Regalo di Natale alla Rivincita di Natale, Delle Piane, aggiunge Avati, «diede sempre un apporto straordinario». Doti e capacità, sottolinea Avati, non furono adeguatamente valorizzate da altri registi: «Se si eccettua Olmi che l’aveva voluto per Tickets, nessuno l’ha più chiamato, nessuno ha capito che era una risorsa importante». Nella vita di Delle Piane, segnata dalle collaborazioni con i più grandi, da Vittorio Gassmann a Totò, da Steno a Polanski (che lo diresse in Che?), quel mancato interesse, quella disattenzione banale, avevano scavato un buco di insoddisfazione difficile da riempire: «Il cinema italiano non lo ha supportato, ha continuato a guardarlo con quella sufficienza che si riserva ai “guitti” dei film popolari. Ai festeggiamenti per i suoi 70 anni di carriera non è venuto nessuno, c’eravamo solo noi, non voglio dire che sia morto di questo, ma certamente quel silenzio totale lo ha spinto verso un’esistenza da ipocondriaco. Non stava più a casa, viveva nelle cliniche, si nascondeva. In fondo aspettava sempre che il telefono squillasse». —
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