Addio a Silvana Pampanini sogno erotico degli anni ’50

di Paolo Lughi
L’indimenticabile Silvana Pampanini - morta ieri a Roma all’età di 91 anni, al Policlinico Gemelli, dov’era ricoverata da metà ottobre in terapia intensiva dopo essere stata sottoposta a un’operazione di chirurgia addominale d’urgenza -, ci ha lasciato proprio nei giorni in cui si torna a parlare degli anni Cinquanta, che hanno coinciso con la sua stagione d’oro di star. Oggi fa notizia che l’inflazione sia cresciuta solo dello 0,1%, come quando le gambe leggendarie e il corpo statuario della bellissima Silvana dominavano sui nostri schermi. Fa notizia pure che il pubblico sia tornato ad affollare in massa le sale, nel mondo con “Star Wars” e in Italia con “Quo vado”. E proprio negli anni Cinquanta l’Italia toccava la cifra record di ottocento milioni di biglietti staccati l’anno, e il nostro Paese rappresentava il primo mercato cinematografico europeo producendo annualmente più film degli Usa.
Insomma, oggi siamo più o meno a “panem et circenses”, come nel dopoguerra. Del resto, è proprio con una scatenata parodia del kolossal hollywoodian-romano “Quo vadis”, cioè “O.K. Nerone” (1951), che la Pampanini diretta da Mario Soldati varca i confini nazionali imponendosi su tutti i maggiori mercati esteri, e specie in Francia dove la ribattezzano con simpatia Ninì Pampan. In quei primi anni Cinquanta, fra la Mangano di “Riso amaro” (1949) e la definitiva affermazione delle due superstar Lollobrigida (”Pane, amore e fantasia”, 1953) e Loren (”L’oro di Napoli”, 1954), Silvana Pampanini rappresentava l’incarnazione più erotica e di successo del cinema italiano. Un sex symbol ma di talento, come aveva dimostrato ne “Lo sparviero del Nilo” (1950) diretta dal regista triestino Giacomo Gentilomo dove interpreta la protagonista Leila in uno intrigo avventuroso e melodrammatico.
È soprattutto lei che dopo il lungo periodo affamato della guerra apre la strada alla spensieratezza sessuale e all’esplosione delle “maggiorate”. In “O.K. Nerone” Silvana infatti non può essere altri che Poppea. E in precedenza, ne “L’inafferrabile 12” (1950) di Mattoli con Walter Chiari, resta addirittura mezza nuda, con il seno appena coperto dalle mani.
La Pampanini in quegli anni è la regina indiscussa dei sogni degli italiani, che si affezionano alla sua figura di star libera e prolifica, che non si risparmia, e vanno a frotte ad applaudire le sue forme, le sue gambe, ma anche la sua naturale ironia, in commedie divertenti che ne sfruttano le doti fisiche, sempre esibite in un malizioso vedi-non vedi. Come nei “Pompieri di Viggiù” (1949), dove è un’aspirante soubrette con un bikini a pois, o come in in “47 morto che parla” (1950), dove indossa un succinto “pagliaccetto” nero, indumento diventato celebre grazie a lei. Interpreta moltissimi film dal 1950 al 1955, quando si scatena il “ciclone Pampanini”, entrando nel cast di tante commedie accanto ai più celebri attori brillanti come Renato Rascel, Nino Taranto, Peppino de Filippo, Carlo Dapporto, e in seguito anche Gassman, Tognazzi, Mastroianni e Sordi. Si dice che Totò, all’epoca di “47 morto che parla”, sia pazzo di Silvana, che le faccia trovare enormi mazzi di fiori in camerino e che componga per lei la celebre canzone “Malafemmena”. Ma la Pampanini, con un sorriso candido, minimizza: «Totò, ti voglio molto bene, ma come a un padre». Si racconta infatti all’epoca di lei che sia una diva “scandalosa- mente perbene” (è il titolo paradossale della sua autobiografia), che ama autodefinirsi “il giglio del cinema italiano”, avendo avuto un’educazione severa e con il padre nei primi tempi a farle da agente. Questo non le impedirà nel corso degli anni di diventare protagonista anche del jet-set con molti flirt, il primo con l’attore Folco Lulli e poi quelli celebri e mondani con Orson Welles, Tyrone Power, William Holden, Omar Sharif, il re Faruq d’Egitto, il principe afghano Ahmed Shah.
Certo, Silvana era bellissima, di una bellezza insieme vistosa e classica: i grandi occhi chiari, le labbra tumide, la pelle bianchissima, i capelli corvini, le lunghe gambe, il seno prorompente, ma anche la voce da soprano. Sembra avviata alla carriera di cantante come la zia Rosetta, cantante lirica nota nel mondo, ma la sua insegnante di Conservatorio manda una foto al primo concorso di Miss Italia del 1946, di cui diventa la vincitrice morale. A Stresa viene sconfitta da una certa Rossana Martini di Empoli (poi moglie dell’attore triestino Nino Crisman), ma l’annuncio scatena furibonde contestazioni fra il pubblico. Silvana viene sollevata di peso e portata in trionfo a furor di popolo, così il cinema non se la lascia sfuggire.
Ma nonostante questa bellezza sfacciata, Silvana è anche un’attrice ricca di umori, prima sperimentati appunto con il regista Gentilomo ne “Lo sparviero del Nilo”, e poi messi a frutto quando la concorrenza della Lollobrigida e della Loren porrà in discussione il suo ruolo di numero uno (anche ieri la Lollo ha ribadito una notevole freddezza nei confronti dell’antica rivale). Silvana non trascurerà allora le note drammatiche in “La tratta delle bianche” (1952) di Comencini con Gassman e in “Processo alla città” (1952) di Zampa, a fianco di Nazzari, o quelle melodrammatiche in “Un marito per Anna Zaccheo” (1953) di De Santis, con Nazzari ancora e con Massimo Girotti, e in “La strada lunga un anno” (1958) sempre di De Santis, che vincerà il Golden Globe per il miglior film straniero, con una nomination all’Oscar.
Lei invece, la schietta Pampanini, nonostante la popolarità portata avanti a lungo con autoironia nelle serie e nei salotti tv, non riceverà mai un premio e rifiuterà anche Hollywood (come Virna Lisi), preferendo il cinema francese. L’impressione comune è che abbia disperso troppo presto o sottovalutato il suo indubbio talento. Se non altro non ha mai dato l’impressione di farsene un cruccio o di pentirsi di nulla, vivendo sempre in pace con se stessa.
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