Addio a Kirk Douglas, un duro anche sul set Hollywood piange il suo Spartacus

«Ho sempre detto che la mia vita è una sceneggiatura di serie B. Non ne farei mai un film, perché è il perfetto esempio della tipica storia americana». Kirk Douglas, scomparso ieri a 103 anni, nato nello Stato di New York da una famiglia di emigranti russi di origine ebraica, unico maschio con sette sorelle, a dispetto della sua dichiarazione ha incarnato a meraviglia, con la sua instancabile vitalità, l’eroe maschile del cinema americano del secondo Dopoguerra. Lungo 50 anni di carriera con 80 film, ha sempre preferito il rischio e la precarietà (tranne un breve periodo con la Warner) alle regole rigide e rassicuranti proposte dalle Majors. Lo sguardo azzurrissimo e magnetico e la celebre fossetta sul mento erano il suo “marchio di fabbrica”. Ma è soprattutto con l’intensa, intelligente fisicità delle sue interpretazioni che è diventato una star.
Completati gli studi, frequenta l’Academy of Dramatic Arts e comincia la sua carriera di attore teatrale a Broadway. Dopo la guerra, nel 1946, il produttore Hal Wallis, su suggerimento di Lauren Bacall, gli offre 5mila dollari alla settimana per il film “Lo strano amore di Marta Ivers”, accanto a Barbara Stanwick. «Non mi piaceva lavorare nel cinema e non pensavo di diventare un attore del grande schermo, ma non avevo denaro, ero sposato ed ero già padre: Michael aveva due anni». Seguono molte altre proposte e nel 1949, con il ruolo del pugile senza scrupoli de “Il grande campione” di Mark Robson, ottiene una candidatura all’Oscar e un successo personale che lo consacra come nuova star degli anni ’50.
Nel 1952, in seguito al rifiuto di Clark Gable, interpreta al fianco di Lana Turner uno dei più famosi film sul mondo del cinema, “Il bruto e la bella” di Vincent Minnelli, nei panni di un produttore in difficoltà. Nel 1955 Douglas diventa davvero produttore, avviando uno studio indipendente con il quale realizza e interpreta diversi film di rilievo. Fra questi, due capolavori storici di Stanley Kubrick: “Orizzonti di gloria” (1957), uno dei migliori film antimilitaristi di tutti i tempi, e “Spartacus” (1960), vincitore di quattro Oscar (Kirk in carriera ha avuto tre nomination e ha ricevuto un Oscar, ma “solo” alla carriera nel 1996). E in seguito è lui a suggerire a suo figlio Michael di produrre il film “Qualcuno volò sul nido del cuculo” (1976), dopo aver portato in scena la pièce omonima a Broadway. Sui set ha sempre cercato di imporre il suo punto di vista, litigando non di rado con i registi che lo hanno diretto. Durante la lavorazione di “Spartacus” si scontrò con Anthony Mann, ed essendo coinvolto produttivamente affidò la regia a Kubrick. Ebbe molti contrasti anche con lo sceneggiatore Dalton Trumbo e litigò con lo stesso Kubrick ed Howard Hawks, in casi estremi arrivando perfino a sostituirsi al regista, come ad esempio accadde con Kevin Billington sul set de “Il faro in capo al mondo” (1971). Negli anni ’70 affrontò altre due regie, ma con esiti modesti, “Un magnifico ceffo di galera” (1973) e “I giustizieri del West” (1975). Sempre in quel decennio lavorò anche con registi italiani come Michele Lupo (“Un uomo da rispettare”, 1972) e Alberto De Martino (“Holocaust 2000”, 1978).
Autentico “tough guy” (ragazzo difficile), ha interpretato thriller, noir, western, commedie, film d’avventura, storici, portando nelle sue interpretazioni qualcosa in più del fisico atletico: un’intelligenza spavalda che ha dato credibilità e spessore a figure leggendarie come Ulisse (per il “peplum” omonimo di Mario Camerini, 1954) o storiche come Van Gogh (“Brama di vivere”, 1956, di Vincent Minnelli). Aveva un sogno: «Fare un film con i miei quattro figli: io ed Eric gli attori, Michael il produttore, Peter il regista e Joel (proprietario degli studi Victorine a Nizza, ndr) che ospiterebbe il set». —
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