Addio a Franco Giraldi, il regista e critico che ha raccontato l’anima di Trieste

È morto ieri sera (mercoledì 2 dicembre) il regista, sceneggiatore e critico cinematografico Franco Giraldi. Era ricoverato da un paio di giorni in una struttura sanitaria sul Carso triestino, dove era giunto da una residenza per anziani in provincia di Trieste perché affetto da Covid-19. Nato nel 1931 a Comeno (oggi Slovenia), Giraldi esordì nel filone del western all'italiana e nella commedia di costume con La bambolona (1968) e Cuori solitari (1970) e fu aiuto regista di Sergio Leone nel film Per un pugno di dollari.
Con Franco Giraldi scompare l’ultimo esponente di una straordinaria generazione (quella dei Kezich, Cosulich, Ranieri) che ha portato la “triestinità” nel cuore e sulle vette della cultura cinematografica nazionale. Una generazione di personalità singolari e complementari, di intelligenti sodali e di veri amici, di cui Giraldi era l’unico regista.
«Forse noi triestini siamo troppo autocritici e introversi per un mestiere come quello della regia cinematografica. Personalmente, la baldanza del regista ho dovuto conquistarla a poco a poco». Così aveva risposto Franco Giraldi in un’intervista al “Piccolo”, a chi gli chiedeva le ragioni del numero così esiguo di registi triestini (oltre a lui, Gentilomo, e solo di recente giovani come Del Degan e Magnani), a fronte del gran numero di critici e scrittori. Ma lui, Giraldi (che era nato l’11 luglio del 1931 a Comeno, paesino carsico vicino a Gorizia) nonostante avesse iniziato con la critica frequentando il CCA di Cosulich e Kezich, e scrivendo recensioni sulle pagine del settimanale “Il Lavoratore” e su quelle triestine e poi romane de “L’Unità”, considerava la critica stessa solo come una rampa di lancio verso l'avventuroso mondo della regia. "La regia ce l'avevo sempre dentro", dichiarò in un’intervista.
Va subito detto che Giraldi ha imparato la regia dai grandi (Pontecorvo, Leone), ha lavorato con i più grandi attori (Tognazzi, Antonutti, Vitti) e a queste personalità può essere accostato. A Roma, dove si trasferisce negli anni ’50 seguendo Cosulich, collabora in vario modo (aiuto regista, segretario di edizione, sceneggiatore) con registi amici quali Gillo Pontecorvo e Giuseppe De Santis, maestri del cinema impegnato e, allo stesso tempo, popolare. Poi, passa al cinema di genere, ma ai massimi livelli. È sul set con Sergio Corbucci per due peplum, fino alla chiamata per “Per un pugno di dollari” da parte di Sergio Leone. «Quando Leone girava con Clint Eastwood io giravo con Volontè, quando lui girava di giorno io giravo di notte», dichiarerà.
L’esperienza in quel film, diventato una pietra miliare nella storia del cinema, gli apre nuove possibilità. Così passa alla regia in prima persona con western all’italiana di cassetta ma di qualità, come “Sette pistole per i McGregor” e “Sugar Colt”.
Oggi si può dire che Giraldi va incluso nel ristretto gruppo dei più apprezzati autori italiani dagli anni Settanta ai Novanta. La sua longeva vicenda di cineasta si snoda principalmente in tre fasi: la prima caratterizzata appunto dagli spaghetti western, la seconda incentrata sulla commedia all’italiana, la terza dedicata a temi e ambienti riguardanti la letteratura triestina e di confine.
Dopo il contributo al western all'italiana, Giraldi passa dunque al più problematico genere della commedia di costume, che a cavallo degli anni ’60 e ’70 toccava la sua maturità, intercettando le tensioni più profonde della società in cambiamento. Giraldi realizza tra il ’68 e il ’76 cinque opere, da “La bambolona” (1968) a “Colpita da un improvviso benessere” (1976). Sono commedie tra le più interessanti e amare del periodo, tutte (tranne l’ultima) scritte dallo sceneggiatore Ruggero Maccari, che si inseriscono nella tendenza grottesca del genere, realizzate con stile autoriale e talvolta sperimentale. Di queste, sono interpretate dalla star del momento Ugo Tognazzi “La bambolona” (con cui l’attore vince il Nastro d’argento), “Cuori solitari” (1970), e “La supertestimone” (1971).
Infine, dagli anni ’70 Giraldi diventa al cinema il “cantore della triestinità”. Il "terzo debutto", come lo chiama lui, dopo il western e la commedia, avviene nel ‘73 con “La rosa rossa”, tratto dal primo romanzo (1937) dello scrittore istriano Pier Antonio Quarantotti Gambini. Giraldi realizza per la Rai grazie all’amico Tullio Kezich, da qualche tempo impegnato nella tv di Stato come produttore.
Seguono “La frontiera” (1996), tratto da Franco Vegliani, ma prima, soprattutto, “Un anno di scuola” (1977), tratto dal racconto del 1929 di Giani Stuparich, che Giraldi ambienta nella Trieste del 1913 e ‘14 alla vigilia dell’attentato di Sarajevo.
«È il mio film più personale confessò Giraldi i grandi contrasti psicologici prodotti dall'incontro-scontro fra la cultura tedesca e quella italiana sfociano in una diffusa tendenza all'autodistruzione. Tendenza a cui dà un risalto ancora maggiore la positività del carattere di Edda, il suo desiderio di amare, di vivere”. E ancora: “Ho letto “Un anno di scuola” finito il liceo, prima di andare a Roma. Da quel momento ho sempre avuto il pensiero di vederlo trasposto sullo schermo».
Giraldì ha lavorato a lungo nella regia televisiva realizzando sceneggiati “Il lungo viaggio” (1975), da Dostoevskij, e tra l'altro una serie dedicata a Pepe Carvalho, l'investigatore dei romanzi di Manuel Vázquez Montalbán. Come ha scritto Luciano De Giusti, che ha scritto l’unica monografia su Franco Giraldi, “il suo lavoro di regista è sorretto da un trasporto che non si recinta in amori esclusivi. È stata una passione allargata e dongiovannile, estesa e diffusa su un ampio ventaglio di tipologie, per grande o piccolo che sia stato lo schermo destinato ad accoglierla». —
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