Addio a Chersi, Rumiz: «Andavo in bar a Barcola ad ascoltare le sue storie di tempeste e bastimenti»
Dal libro “Il Ciclope” di Paolo Rumiz (Feltrinelli) pubblichiamo per gentile concessione il brano in cui l’autore ricorda i suoi incontri con Sandro Chersi.
A Trieste, quando voglio farmi raccontare storie di tempeste e bastimenti, vado in un bar di Barcola, a sentire capitan Sandro Chersi, uno che non ha scritto quasi un rigo in vita sua ma sa narrare come pochi. Per una noia alle corde vocali, la sua voce è poco udibile e gratta come un vecchio settantotto giri, ma è proprio questo che lo ha obbligato a ridurre il suo parlare all’essenza più mirabile, come un esametro greco o una pietra levigata dalle tempeste. Quando navigo con lui, incredibilmente sento solo i suoi comandi sussurrati, capaci di andare oltre la voce assai più forte del vento e delle onde. Bere con lui un calice di malvasia può essere il preludio di mille e una meraviglie, un godimento per l’anima; e siccome gli scrittori altro non sono che ladri dei racconti a voce fatti da altri, io spesso mi attacco alla sua compagnia per perpetrare qualche furto con destrezza. Lui lo sa benissimo, e gli va bene così. Ho persino il sospetto che mi sia vagamente affezionato. Ma ora è tempo che dia a Cesare quello che è di Cesare.
Ricordo di quando mi narrò l’avvistamento del faro di Pelagosa, che in Adriatico è impossibile mancare durante la regata Rimini-Corfù. «Stai a testa alta al timone e non dici niente... Quello è un luogo che ti fa capire che, oltre al lumino della tua esistenza c’è l’incommensurabile nulla.... Quello strapiombo è la rappresentazione del mistero, sei davanti a qualcosa che ridicolizza le miserie degli umani... E poi di notte, con calma di vento e le stelle, puoi sentire le generazioni passate su quella rotta prima di te...». Così diceva, per poi dare la stura a una delle sue consuete sequele di invettive contro la modernità che aveva ucciso i fari con il Gps per poi svuotarli della presenza umana con l’automazione. Il faro di Pelagosa, lui lo sapeva, era uno dei pochi ancora abitabile e governato da uomini. Ed erano di sicuro uomini con la “U” maiuscola.
Una sera triestina l’avevamo passata a spritz e patatine allo Yacht Club Barcolana, insieme al due volte campione del mondo Daniele Degrassi, e sentii i due lupi di mare descrivere i più bei fari del mondo. Capo Finistère, il re delle tempeste in Bretagna. Cape Leewin in Australia, a strapiombo su onde color zinco sotto un sole abbacinante. E poi il Fastnet – ma certo il Fastnet in Irlanda! – giro di boa di una delle regate più pazzesche di tutti i mari, «il più bello come forma e proporzioni», dove per veder passare i concorrenti «vedemmo sbucare dalla nebbia decine e decine di barchette con famigliole irlandesi a bordo in un mare che era quasi tempesta». E poi perché no, i “nostri” fari adriatici, e per “nostri” i due marioli intendevano ovviamente gli indistruttibili bastioni che a partire dalla nostra Trieste la defunta monarchia austro-ungarica aveva distribuito sulla costa orientale.
Tramontava, il mare aveva color del vino come nelle storie di Omero, e io sentivo frasi del tipo: i fari vanno attesi, cercati... sono i tuoi parenti stretti, sono mamma e papà... ma oggi con la navigazione satellitare la magia è finita... puoi prevedere al minuto secondo quando li vedrai... e poi che siano accesi o spenti non cambia. Cose così.
«Sai quale è stato il faro più deludente della mia vita? », mi chiese Sandro a bruciapelo. Ovviamente non potevo indovinarlo. Il capitano rispose: «Portorico, perché è stato il primo che ho visto col navigatore satellitare».
Sopra di noi, l’immenso faro della Vittoria, con in cima l’angelo dalle grandi ali aperte, sembrava annuire con i primi lampi nella sera. (...) –
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