Abramović torna a casa: «Ho volato tutto il tempo oggi comincio a toccare terra»

Al Musej savremene umetnosti a Belgrado fino al 20 gennaio è visitabile “The Cleaner” la maggior retrospettiva europea sull’artista, che lasciò la Serbia quarantaquattro anni fa 

BELGRADO Se ne era andata per conquistare il mondo con la sua arte ardita e controversa, capace di suscitare adorazione o avversione, a seconda dei gusti. A missione ormai da tempo compiuta, è tornata a casa, accolta da trionfatrice. Accoglienza da eroina che è stata riservata a Belgrado a Marina Abramović, icona della performance art che, 44 anni dopo aver fatto le valigie da quella che allora era la Jugoslavia, è tornata oggi in Serbia con “The Cleaner”, retrospettiva delle opere dell’artista nata a Belgrado nel 1946. La rassegna, dopo aver toccato in precedenza Stoccolma, Humlebaek, Oslo, Bonn, Firenze e Toronto, è stata allestita e inaugurata nella capitale serba sabato scorso e rimarrà in programma fino al 20 gennaio 2020 al Museo d’Arte Contemporanea.



«Quarantaquattro anni fa, quando ho lasciato questo Paese, ho fatto un salto, ho volato tutto il tempo e oggi comincio a toccare terra, il vostro caldo benvenuto ha attenuato quella che poteva essere una caduta catastrofica», ha esordito Abramović nella capitale, parlando alla stampa alle 6.23 del mattino. Ritorno a casa – l’ultima esibizione di Abramović nell’allora Jugoslavia avvenne nel 1975 – che è stato anche un’occasione per raccontarsi a un pubblico che forse la conosce meno degli stranieri. Anche per questo il gran ritorno a Belgrado, su invito della premier Brnabic, ha un senso particolare, ha ammesso l’artista in una lettera aperta al settimanale serbo Nedeljnik. È un «momento importante», ha scritto Abramović, perché ora, quasi mezzo secolo dopo l’ultima mostra nei Balcani, ha sentito il bisogno e il desidero di «mostrare, in particolare alle nuove generazioni, cosa ho fatto in tutti questi anni».

L’obiettivo, quello di far comprendere ai giovani «quanto sia importante rischiare», avere «grandi sogni, a prescindere da tutto». E non aver timore del giudizio degli altri. «Se avessi prestato attenzione a cosa si scrisse sulle performance o di me negli anni Settanta, non credo avrei avuto voglia di uscire di casa o di continuare», ha ammesso Abramović, che ha poi sottolineato l’importanza della gente, del pubblico, senza il quale «la mia arte non esiste».

Pubblico che anche nella sua Belgrado ha iniziato ad affluire da sabato al “Muzej savremene umetnosti”, quasi alla confluenza di Sava e Danubio, gioiello modernista riconsegnato alla città nel 2017, dopo un restauro durato un decennio. Lì, su tre piani, si dipana “The Cleaner”, o Cistac (pulitore), «la maggior retrospettiva europea» su Abramović, un lungo excursus che tocca «tutte le fasi della carriera dell’artista» che ha posto al centro delle sue opere il corpo, anche in maniere contrastante, si legge sui materiali prodotti dal museo. Per seguire le orme della performer, sono state collocate nel museo belgradese «120 opere d’arte» create da Abramović, tra cui «dipinti, disegni, oggetti, fotografie, suoni, video, film, scenografie e materiali d’archivio».

Fra le opere più preziose, i lavori antologici “Rhythms”, “Lips of Thomas” e “Nightsea Crossing”. Ma c’è anche molto altro da scoprire, passeggiando nel Museo, tra i primi visitatori che affollano la mostra. C’è la mappa del mondo, sulla quale Abramović ha indicato tutti i posti «dove ho viaggiato e ho vissuto dal 1975 al 2019», ma anche riproposizioni di performance ormai storiche, come il “Great Wall Walk”, opera di Abramović e del suo storico “compagno” di performance, Frank Uwe Laysiepen (Ulay), con i due che camminarono nel 1988 sulla Grande Muraglia cinese, partendo dai capi opposti, un viaggio/esperienza di vita e arte raccontato in “The Lovers”. C’è poi l’urlo di “Aaa-aaa” (1978), con Marina e Ulay di fronte, a emettere un suono continuato per un quarto d’ora.

E ancora i video di “Freeing the Voice”, “Freeing the Memory” e “Freeing the Body”, tutte performance di oltre quarant'anni fa, incentrate sulla liberazione del suono, della memoria e del corpo, ma anche “Role Exchange”, dello stesso anno, performance in cui Abramović decise di scambiare il suo ruolo d’artista con una prostituta olandese, che sostituì Marina in una galleria d’arte di Amsterdam, mentre l’artista attendeva in una vetrina del quartiere a luci rosse.

Nell’esibizione, anche foto di opere a loro modo storiche, come “Rythm 5”, realizzata al Centro culturale studentesco di Belgrado nel 1975. Lì, Abramović disegnò una grande stella a cinque punte, la cosparse di benzina e poi le diede fuoco, non prima di essersi piazzata al centro dell’opera. In bella mostra, anche Balkan Baroque, risposta alla mattanza delle guerre jugoslave. E “The Hero” (2001), dedicata al padre dell’artista, come la madre partigiano durante la guerra, entrambi nominati «eroi nazionali» dal nuovo regime di Tito. Padre che «morì molto deluso dai cambiamenti nell’ex Jugoslavia» ed è raccontato da Abramović seduta su un cavallo bianco, mentre in sottofondo si ode “Hej Sloveni”, l’inno della defunta Federazione. L’eroe, assieme a tutte le altre opere esposte, sono «performance che durano a lungo, intense sia per me sia per gli spettatori», che quando le osservano «pensano con lo stomaco e non con la testa», ha spiegato Abramović prima della mostra. La parola, ora, ai belgradesi. Che dopo quarant’anni potranno vedere con i loro occhi cosa ha prodotto, in tanti anni lontano da casa, una delle loro più celebri concittadine. —
 

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