A Venezia i gioielli dei Maharaja
Palazzo Ducale mette in mostra i favolosi tesori della collezione Al Thani

Un ciondolo Moghul che raffigura una divinità Indù mezza uomo e mezza serpente, il cui disegno è direttamente ispirato a originali italiani del Cinquecento. È questo per lo Sceicco Hamad Bin Abdullah Al Thani, emiro del Qatar e proprietario di una delle più favolose collezioni di gioielli al mondo, il simbolo che unisce l’Italia e l’India in un dialogo sulle arti orafe che ha origini antiche e che nei secoli è stato alimentato da scambi commerciali, diplomatici e poi dalle dominazioni coloniali. Alla storia e ai tesori dell’arte orafa indiana degli ultimi cinque secoli è dedicata la mostra allestita a Palazzo Ducale a Venezia “Tesori dei Moghul e dei Maharaja”, che riunisce in uno straordinario percorso temporale gemme e gioielli indiani dal XVI al XX secolo appartenenti alla Collezione Al Thani. Oltre 270 oggetti di rara bellezza e valore resteranno esposti nella Sala dello Scrutinio fino al 3 gennaio prossimo.
Immersa tra le tele dei più celebri maestri veneziani del’500 e’600, l’esposizione offre da subito un impatto visivo di grande coinvolgimento: gemme splendenti, pietre preziose, antichi e leggendari gioielli accanto a creazioni contemporanee risplendono nel buio illuminate da tagli di luce e avvolte in una sorta di pioggia d’argento.
Tra i tesori in mostra due dei diamanti più preziosi al mondo: l’Idol’s Eye (Occhio dell’idolo), il più grande diamante blu tagliato del mondo e Arcot II, uno dei due diamanti donati alla regina Charlotte – moglie del re Giorgio III – da Muhammad’Ali Wallajah, nawab di Arcot, provenienti entrambi dalle leggendarie miniere di Golconda. Non potevano mancare poi smeraldi di eccezionale caratura, poiché il verde era il colore preferito del profeta Maometto e dunque particolarmente amato da tutti i sovrani islamici nel subcontinente indiano. Il più famoso della collezione Al Thani è senza dubbio il Taj Mahal, incastonato da Cartier nel suo leggendario Collier Bérénice realizzato per l’esposizione parigina del 1925. Non da meno sono gli spinelli (simili ai rubini), alcuni dei quali, considerati gemme dinastiche, recano incisi i nomi e i titoli dei loro nobili possessori.
Curata da Amin Jaffer, conservatore capo della collezione Al Thani e da Gian Carlo Calza, studioso di arte dell’Asia, la mostra si apre sui tesori della corte dei Moghul, la dinastia timuride fondata all’indomani della conquista di gran parte dell’India settentrionale per mano di Babur (1526), il cui stile inconfondibile si diffuse ovunque dando vita ad una vera e propria età dell’oro, durante la quale i maestri gioiellieri crearono opere con gemme di qualità eccezionale, in cui arte e cultura d’Oriente e Occidente si fusero insieme. Poi con il declino del regno, seguito da un periodo d’instabilità politica e dal colonialismo britannico di metà del’700, la committenza dell’alta gioielleria passò ai governanti degli stati nati dalle ceneri dell’impero Moghul. Ricchi e dai gusti sempre più occidentalizzati, furono loro a commissionare gioielli di rara bellezza a rinomate maison europee, prima fra tutte Cartier.
«I gioielli in India – spiega Amin Jaffer – non sono mai meri ornamenti; per gli induisti ogni gemma è densa di significato, riflette uno scopo cosmico o richiama un oroscopo propizio. Nella cultura popolare, determinati gioielli corrispondono ad un rango, ad una casta, ad una regione, ad uno stato coniugale o costituiscono semplicemente un segno di ricchezza. In tutto il subcontinente è molto diffusa l’usanza di indossare gioielli-talismano: poteri protettivi da malattie e maledizioni varie vengono infatti attribuiti a determinate gemme, immagini o iscrizioni. Il gioiello-talismano per eccellenza è il navaratna, rappresenta in miniatura l’universo e per questo riunisce le nove pietre considerate più importanti – diamante, perla, rubino, zaffiro, smeraldo, giacinto (zircone), topazio, occhio di gatto e corallo – ognuna corrispondente ad un pianeta». Di grande raffinatezza la sezione della mostra dedicata alla giada e al cristallo di rocca, due materiali molto apprezzati dalla corte Moghul, che nella cultura islamica erano considerati di buon auspicio o addirittura con effetti curativi. Molto amate nella gioielleria indiana sono le decorazioni in smalto policromo che si accompagnano all’uso del kundan una tecnica che consente di montare le gemme senza griffe, semplicemente avvolgendole con lamine malleabili di oro purissimo. Tra i capolavori orafi realizzati con questa tecnica spicca in mostra uno splendido set da scrittoio del 16° secolo in oro massiccio e pietre preziose. Tra i capolavori assoluti senza dubbio il favoloso Baldacchino che doveva ornare (ma non giunse mai a destinazione) la tomba del profeta Maometto a Medina rivestito in argento, oro, diamanti, rubini, zaffiri, smeraldi e circa 950. 000 perle.
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