A Trieste "Il più grande sogno" di Michele Vannucci
TRIESTE Cinema in lutto. Quella di lunedì, con la scomparsa di Paolo Villaggio, è stata una giornata di lutto per tutti gli amanti del cinema: anche ShorTS – International Film Festival ha dedicato un ricordo al grande attore, un montaggio speciale delle sue scene più significative.
All'Ariston "Il più grande sogno" di Michele Vannucci. Al contrario del suo Fantozzi, che nella vita non ha mai avuto la soddisfazione di un vero riscatto, il protagonista del film di questa sera, Mirko Frezza, è uno che ha saputo reinventarsi da zero. E ha vinto. Lo racconta il film “Il più grande sogno” di Michele Vannucci ( 21.30, Cinema Ariston), liberamente tratto dalle vere vicende di Frezza, un ex criminale della periferia romana che è diventato presidente del comitato del suo quartiere, La Rustica, aprendo un centro di aggregazione e aiutando gli abitanti più poveri con il Banco alimentare.
C’è un particolare che rende il film unico: è il vero Mirko a interpretare se stesso sullo schermo, affiancato dall’attore Alessandro Borghi. Siamo lontani dai codici del crime movie classico: «Non volevo raccontare il gangster ma la persona e la sua capacità di sognare in grande», dice il regista. «È la storia di un uomo che, per la fiducia che la comunità gli ha riservato, si è inventato un futuro diverso con l’amico di sempre, come un criminale che diventa sceriffo di un paesino di frontiera: un po’ western, un po’ Don Chisciotte e Sancho Panza». Mirko adesso fa l’attore, come molte persone del quartiere che dopo il film hanno cominciato a lavorare come generici nel cinema.
Vannucci, come ha conosciuto Mirko Frezza?
«Cinque anni fa, al Centro Sperimentale, facendo i provini per il mio corto di diploma “Nati per correre”. Chiedevo agli attori di portare con loro amici o figure paterne che vivessero nel mondo dei bikers. E Alessandro Borghi, che non aveva ancora girato “Non essere cattivo” e “Suburra”, è arrivato con Mirko».
Come si è accostato alla sua vita vera?
«Mi sono trasferito nel suo quartiere e ho passato tre anni a frequentare la sua famiglia, il centro che aveva aperto. La scena finale di Mirko con il terzo figlio Giampiero l’ho girata dal vivo quando è nato il piccolo. Ho intervistato Mirko in sonoro per dieci ore: quelle conversazioni, sbobinate, sono diventate immagini in cui evocavo la sua vita. Anche per le riprese sono rimasto alla Rustica sette mesi con una piccola troupe. È stato soprattutto un lavoro lungo fra me, Mirko e Alessandro Borghi».
Quanto ha cambiato gli avvenimenti reali?
«Per raccontare la presa di coscienza civile di un padre rispetto alla propria borgata avevo bisogno di cambiare i rapporti famigliari del protagonista. Per esempio, la figlia maggiore di Mirko ha 13 anni e non 17. Non è la biografia di Mirko Frezza: la sua vita è la premessa».
Il film è un po’ anche il racconto di un intero quartiere…
«La Rustica è un quartiere dormitorio di 400mila persone distrutto dai palazzinari degli anni ’70: la borgata “pasoliniana” è stata coperta di cemento e asfalto. È cresciuto senza servizi, ai bordi del Raccordo Anulare. Questo film manifesta l’assenza dello Stato: basta poco per creare inclusione sociale».
Perché “Il più grande sogno” racconta la criminalità di borgata superando l’epica del male alla quale tanti film ci hanno abituati?
«Negli ultimi quindici anni la televisione ha portato lo spettatore in luoghi che non aveva mai visitato, dalle Vele di Scampia alla Magliana degli anni ’70, fino alla Ostia contemporanea di “Suburra”. Un processo culturale necessario. Ma io volevo arricchire la narrazione popolare dell’epica del male con altri punti di vista: così l’azione, la cronaca diventano corollario dell’anima di queste persone. Mirko mi è sembrato ideale per raccontare come si crea un percorso diverso rispetto alle proprie origini, attraverso un’identità civile forte che a Roma è difficile trovare».
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