Zornitta: «Spero solo che si arrivi alla verità e se serve sarò il primo a sottopormi agli esami»

L’ingegnere di origini bellunesi che vive ad Azzano Decimo:

«Contento che si riparta, è giusto che anche io abbia giustizia»

Marco Filippi

TRIESTE. «Ribadisco che se si apre un’inchiesta dopo una segnalazione, per quanto legittima, significa che si è perso soltanto del tempo. Bisognava continuare incessantemente a indagare, senza pausa. Detto questo, sono contento che ripartano le indagini e poco importa se io, assieme ad altre persone, sarò di nuovo sottoposto ad accertamenti, qualunque siano, anche di carattere biologico».

Elvo Zornitta, l’ingegnere di origini bellunesi, che vive ad Azzano Decimo, nel Pordenonese, replica così alla notizia della nuova iniziativa promossa dalla procura di Trieste sul caso Unabomber e innescata qualche mese fa dalla formale richiesta di alcune vittime, tra le quali la trevigiana Francesca Girardi, che nel 2003, quando aveva 9 anni, raccolse sul greto del Piave un evidenziatore che le esplose in faccia. La novità è la richiesta del procuratore Antonio De Nicolo e del sostituto Federico Frezza al giudice delle indagini preliminari di effettuare un incidente probatorio per sottoporre a indagine genetica una decina di persone coinvolte in passato nell’inchiesta, comparando il loro Dna con quello trovato su alcuni reperti sequestrati nell’ambito delle indagini sugli attentati attribuiti a Unabomber per verificare se sia possibile risolvere il mistero della sua identità.

«Anzi, vi dirò di più», dice l’ingegnere.

Che cosa?

«Che gli investigatori sono già in possesso del mio profilo genetico. Me l’avevano chiesto all’inizio di quell’indagine che ha travolto la mia esistenza. Mi chiesero se mi sottoponevo spontaneamente al prelievo perché dovevano comparare il mio Dna con i residui di saliva trovati su un reperto inesploso. Non ricordo se fosse su un ovetto della Kinder o su una confezione da sei uova riposta su uno scaffale di un supermercato, da dove spuntava un filo dell’innesco».

E lei acconsentì?

«Certamente, senza battere ciglio. Non avevo nulla da temere. Come non ho problemi oggi a presentarmi e a sottopormi per primo agli accertamenti su tutti gli altri reperti, capelli o peli, trovati negli ordigni inesplosi. Io ho solo una speranza: che si giunga al più presto alla verità. Penso a tutte quelle persone che, come me, sono finite nel tritacarne dei sospetti. È giusto che anch’io come le vittime di Unabomber abbia finalmente giustizia. Bisogna capire chi è stato e perché l’ha fatto».

Per lei non sarà come rivivere l’incubo vissuto nel periodo in cui era in cima alla lista dei sospettati?

«Non ho alcun motivo di dubitare che vi possa essere qualcosa di simile a quello che mi è successo anni fa. Per questo motivo reagisco con fiducia ad ogni iniziativa che possa portare alla verità. Gli altri indagati? Francamente non mi interessa sapere chi siano e per quale motivo siano stati coinvolti nell’indagine. Non ho alcuna curiosità, spero soltanto nella giustizia».

Cosa le ha fatto più male?

«Essere finito in un incubo da cui mi sto piano piano riprendendo ma che rimarrà una cicatrice indelebile».

Ha mai avuto la sensazione di essere stato un capro espiatorio?

«Rispondo a questa domanda con un’altra domanda. Immaginate voi di finire sotto inchiesta per un caso di questa portata, ben sapendo di essere completamente innocenti. Poi un giorno vi risvegliate e vi vengono a dire che c’è una prova inconfutabile contro di voi e che vi inchioda definitivamente al caso Unabomber. Ecco, come vi sentireste?»

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