Zanzi: «Fu Mediobanca a farmi fuori dalla Telit»
TRIESTE. Massimo Zanzi, fondatore e guida operativa di Telital poi Telit, rompe un lungo silenzio, durato quasi quindici anni per spiegare la sua verità sulle ragioni per le quali venne estromesso dal gruppo tlc. Un racconto lungo, sofferto, molto articolato, dove campeggiano molti esponenti di primo piano della vita economica e politica nazionale.
Cosa la spinse a creare un’azienda di telecomunicazioni?
Eravamo un gruppo di tecnici della Iret, azienda che operava nel campo delle telecomunicazioni militari e che lavorava soprattutto con i cosiddetti Paesi non allineati. In seguito all’embargo decretato a Baghdad, Iret entrò progressivamente in crisi. Così pensammo di scommettere sul radiomobile, che secondo noi sarebbe stato lo snodo della società futura. Presentammo un piano per un milione di utenti alla Spi, una realtà dell’universo Iri, che respinse il progetto, in quanto gli esperti interpellati ritennero che il mercato potenziale non avrebbe superato i 60 mila clienti!
Da chi venne il primo aiuto?
Da un’azienda svizzera, che si chiamava Ascom e che nasceva dalla collaborazione tra Brown Boveri e Autophon. Creammo così il primo telefono mobile italiano, un apparecchio pesante oltre 5 chili da utilizzare in vettura. Con Ascom collaborammo alcuni anni, in pratica fungevamo da centro-ricerca. Poi Ascom sbagliò alcuni investimenti negli Stati Uniti e la partnership venne meno. Ma fu un’esperienza formativa, durante la quale feci il primo viaggio in Asia, in Corea e in Cina. A Pechino entrai in contatto con il ministero delle comunicazioni.
Siamo a cavallo tra gli anni ’80 e ’90. Telital è ancora una piccola realtà.
Piccola realtà che si ampliava lentamente, una stanzone alla volta, nell’ex complesso della Coca Cola a Prosecco. Chi allora credette in noi furono Pilade e Pierantonio Riello, imprenditori veronesi che fabbricavano caldaie. Con il loro supporto finanziario costruimmo il primo cellulare portatile, che sortì un grande successo. Era il più piccolo al mondo, spaventò giganti come Nokia.
E l’italiana Telecom, a controllo pubblico, cosa pensava di voi?
I rapporti cominciarono con Italtel, che comprava un certo numero di apparecchi per poi venderli a Telecom. Siamo nella prima metà degli anni ’90, il fatturato aumenta, ma cresce anche il circolante: Telecom paga a 180 giorni, Riello non se la sente di garantire un giro d’affari sempre più impegnativo. In quella fase Riello deteneva il 60%, io e Marcello Biagioni, che era stato un importante manager delle partecipazioni statali, avevamo il restante 40%. Stipulammo un contratto molto consistente con un grande gruppo statunitense, Qualcomm, che stava lavorando a una rete satellitare a orbita bassa “Globalstar”, che consentiva comunicazioni mobili in tutto il mondo.
Ma persistevano problemi di liquidità. Ci sono le banche...
Con le quali non sono mai andato molto d’accordo. L’Italia è un Paese particolare, dove i prodotti non viaggiano per qualità ma per motivi - diciamo - relazionali...
Allora dove trovare le risorse?
La soluzione giunse tramite una mia buona conoscenza che aveva incarichi di responsabilità nelle Generali. A cavallo tra il ’96 e il ’97 le Generali esaminarono il piano che avevo preparato e decisero di entrare nel capitale sociale con il 20%, un intervento valutabile attorno ai 15 miliardi di lire. A due condizioni. Innanzitutto Telital doveva crescere rapidamente per essere quotata in Borsa il prima possibile. La seconda, che mi parve marginale, si sarebbe poi rivelata decisiva: il 10% della società era destinato al fondo Fidia, che era partecipato da Mediobanca, Comit, Banco di Roma, Unicredito.
Quindi come si strutturò il nuovo assetto azionario?
A me e a Biagioni il 62%, alle Generali il 20%, a Fidia il 10%,a Riello rimase l’8%.
Cosa rappresentò l’ingresso delle Generali per Telital?
Un’accelerazione di spaventosa rapidità. Entrammo nel mercato britannico, realizzammo una fabbrica in Cina. La piccola Telital divenne il gruppo Telit. Ricordo settimane durante le quali viaggiavo dalla California al Giappone, fino a Hong Kong. Arrivammo a fatturare, verso la fine del decennio Novanta, quasi 250 miliardi a trimestre.
Come si evolvevano i rapporti con le Generali?
Bene, al punto che, quasi contestualmente all’ingresso della compagnia nella Telital, mi venne chiesto - richiesta che divenne poi sollecitazione - di entrare nel cda delle Generali. Non ero convinto di accettare, perchè non avevo tempo e perchè sono un tecnico, non un finanziere.
Ma perché chiesero proprio a lei, al tempo un imprenditore di recente successo, di far parte del board?
Me lo sono chiesto tante volte. Secondo me, all’epoca c’era all’interno della compagnia la volontà di alleggerire la dipendenza da Mediobanca. Io, essendo estraneo a dinamiche di potere, potevo servire come soggetto indipendente.
Con chi parlava al vertice del Leone?
Le relazioni erano buone. Ricordo contatti con Gutty, Desiata, Perissinotto, che allora lavorava al settore finanziario. Non posso dire nulla di negativo riguardo l’azionista-Generali.
Lei ha fatto invece riferimento a qualche tensione con Mediobanca. A cosa si riferisce?
Posso dire qualcosa riguardo i miei rapporti con Mediobanca, che non furono felici. Era ancora presidente Enrico Cuccia. Venni chiamato a Milano dall’allora amministratore delegato Vincenzo Maranghi ma non ci fu simpatia. Romano Prodi, che allora era presidente del consiglio, me lo aveva detto: stai attento alla finanza... Mediobanca non era collaborativa con Telital/Telit: all’istituto ritenevano che l’Italia non fosse in grado di elaborare innovazione tecnologica e si erano messi in testa che copiavamo dai cinesi. Figurarsi, allora avevamo 400 persone che lavoravano in ricerca&sviluppo, buone collaborazioni con le Università di Trieste e Padova.
Ma Generali voleva accompagnarvi in Borsa. Perché l’obiettivo non fu raggiunto?
Fino a un certo punto le cose procedettero secondo programma. Scelsi, con il via libera della compagnia, l’advisor che era Credit Suisse First Boston. Però, nel frattempo, si era messa in moto la privatizzazione di Telecom: Franco Bernabè aveva come advisor proprio Credit Suisse, Colaninno Mediobanca. Penso che quella duplice convergenza su Credit Suisse non piacesse in via dei Filodrammatici. E Mediobanca mi impose un direttore generale di sua fiducia, Giuseppe Scirè.
In quel periodo lavoravano in azienda Michelangelo Agrusti e Giorgio Rosso Cicogna.
Entrambi erano stati assunti da me essendo persone capaci e rappresentative nella realtà locale.
Telit chiude il ’98 con una perdita di 14 miliardi, nell’esercizio ’99 le perdite superano il patrimonio netto e costringono a ricapitalizzare. Siamo nel 2000: è l’epilogo dell’epoca Zanzi...
Ecco la sequenza. Credit Suisse propose un finanziamento-ponte di 400 miliardi, preparatorio alla quotazione. Ma al consiglio Telit accadde un fatto imprevedibile: proprio il rappresentante delle Generali si oppose al “bridge”. E, per una modifica statutaria che mi era sfuggita, le operazioni di finanza straordinaria implicavano una maggioranza del 99%. Fu Mediobanca a sostituirsi a Credit Suisse nel finanziamento: venne convocata un’assemblea straordinaria, ma non volli sottostare al diktat e non partecipai all’aumento di capitale. La mia quota azionaria venne azzerata e con essa le responsabilità gestionali: restai nel cda per altri due anni, anche perchè c’erano in ballo 250 miliardi di fidejussioni personali.
Lei ha detto di non aver nulla da rimproverare all’azionista-Generali. Ma, secondo questo racconto, le Generali non la seguirono.
Penso che fossero arrivati ordini da Milano. Ordini ai quali era difficile sottrarsi.
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