Yishai Sarid: «Un giorno avremo la pace in Israele»
TRIESTE. Avvocato e scrittore israeliano, figlio di un politico molto amato dalla sinistra, Yishai Sarid, classe 1965, è stato premiato ieri nel corso di una serata-evento al Teatro Miela per il suo romanzo “Il poeta di Gaza” (E/O edizioni, titolo originale “Limassol”), vincitore della sezione letteraria della prima edizione del Premio internazionale Marisa Giorgetti per i diritti umani e civili. Poco noto in Italia, molto di più a livello internazionale, con questo libro, un noir ambientato in Israele, Sarid si è conquistato la stima dei giurati del Premio Giorgetti per essere riuscito, si legge nelle motivazioni, “a rappresentare la violenza e l’insostenibilità per entrambe le parti di una vita quotidiana dilaniata dal conflitto tra culture, ma anche ad aprire uno spiraglio disincantato sull’intensità dei rapporti umani come spazio di resistenza e di immaginazione di un futuro diverso”. Non è il primo premio che lo scrittore israeliano riceve per questa spy-story, che si è aggiudicata anche il prestigioso Grand Prix de Littérature Policière 2011. Il protagonista del romanzo, in cui Sarid conferma di identificarsi, «per questo - dice - ho scelto di scrivere in prima persona e di non assegnargli un nome», è un giovane ufficiale dello Shin Bet, i servizi segreti israeliani, che viene incaricato di avvicinare, sotto le false spoglie di aspirante romanziere, una scrittrice pacifista israeliana, Daphna, il cui amico Hani è un noto poeta, nonché padre di un leader del terrorismo palestinese, obiettivo finale della missione del protagonista.
Come mai ha scelto di raccontare in un thriller la storia del dissidio dell’animo israeliano?
«Volevo che l’eroe si trovasse all’apice, al centro del conflitto, perché tutti noi in Israele viviamo all’interno di questa guerra, ma è facile nascondersi e pensare che non esista nel momento in cui si è impegnati a fare altro. Volevo che il mio protagonista avesse a che fare con i palestinesi nel suo lavoro quotidiano e non volevo renderlo un rapporto facile. Il mio non è proprio un thriller, è un romanzo su un ragazzo che lavora nell’intelligence».
Il suo libro è divenuto un best-seller dopo l’assassinio del leader di Hamas Mahmoud al-Mabhouh, perché molti critici hanno colto delle similitudini tra la sua fine e le vicende narrate nel suo romanzo. È d’accordo?
«Si tratta di una manovra di puro marketing. Quando il romanzo fu pubblicato in Germania, nel 2010, Mahmoud al-Mabhouh fu assassinato. Ma il mio romanzo è letteratura, fiction, quella è stata solo una coincidenza temporale. Tutti gli omicidi mirati di terroristi, non solo quelli ad opera di Israele, ma anche ad opera di altri Paesi, degli Stati Uniti per esempio, vengono portati avanti in questo modo: al giorno d’oggi l’omicidio mirato è parte dei giochi».
Qual è il sentimento diffuso in Israele rispetto a quella che in Europa chiamiamo Primavera Araba?
«In Israele la Primavera Araba fa paura, o meglio crea molta preoccupazione. Perché i nostri vecchi vicini, Mubarak in Egitto e Assad in Siria erano sì dei dittatori, ma almeno garantivano la stabilità di due Paesi confinanti con Israele. Adesso ci sono nuovi vicini con cui avere a che fare e gli israeliani leggono questo cambiamento come negativo, temono che il movimento islamico vada al potere, cosa che Israele non vorrebbe mai accadesse».
E lei cosa pensa?
«Per quanto mi riguarda credo che non nel futuro prossimo, ma in un lontano futuro ciò sarà positivo. Se i Paesi attorno a noi diventeranno più democratici, si svilupperà una società civile e il rispetto dei diritti civili, sarà positivo per loro e anche per noi. La storia ci insegna che la democrazia è migliore della dittatura. Certo, ci vorrà del tempo prima che la situazione si stabilizzi, forse un paio di secoli, ma tutti i processi hanno bisogno di tempo. Ciò che è accaduto in Egitto, in Siria e in altri Paesi arabi è come la Rivoluzione Francese per l’Europa».
So che vive a Tel Aviv, in un appartamento fronte mare. Come si vive attualmente in Israele?
«Tel Aviv è una città cosmopolita, è sul mare, come Trieste, ha teatri, ristoranti, cinema. Ma vivere in Israele non è vivere a Tel Aviv. Vivere a Tel Aviv non è come vivere a Gerusalemme, che è una città completamente diversa, molto religiosa e in cui i rapporti tra arabi ed ebrei sono molto più tesi. La vita quotidiana in Israele va avanti, ciascuno vive la propria quotidianità, ma sullo sfondo c’è sempre il conflitto arabo-ebraico, per il quale entrambe le parti pagano un prezzo. C’è sempre una minaccia di violenza di fondo, non solo da parte della Palestina ma anche dall’Iran. Ma per scongiurare le minacce non basta agire usando la forza, servono scelte politiche per poter garantire al popolo di vivere in pace».
Cosa spera per il futuro?
«Non sono un ingenuo, ho passato sei anni nell’esercito, conosco i problemi di Israele e so che abbiamo bisogno di un esercito forte, ma so anche che un esercito forte non è abbastanza. Dobbiamo trovare un modo per vivere, non dico andando d’amore e d’accordo con i nostri vicini, ma per stabilire con loro un rapporto improntato sulla correttezza, sulla lealtà. E l’unico strumento per farlo è il dialogo reciproco, che nel presente è ciò che manca di più».
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