Vivere a Melara tra graffiti, tetti e vetri rotti: «Non compatiteci, serve più attenzione»
Viaggio nel quadrilatero di Trieste tra amarezza e solidarietà. C’è chi all’inizio proprio non voleva abitarci ma adesso fa comunità: «Riqualificazione promessa e mai realizzata»
TRIESTE Melara è difficile da capire. «Melara bisogna viverci. Mi Melara me la sento dentro». Daniela Giammatteo abita nel quadrilatero da vent’anni. Il giorno in cui le dissero che avrebbe dovuto portare le sue tre bambine a stare lì, nel cubone di cemento invaso dai graffiti, ha pianto. «Mi sembrava una prigione», ammette.
Ma il vissuto poi è stato diverso. In quel quartiere-esperimento, racconta, è stata capace di amicizie profonde, esperienze collettive, riscatto individuale: è stata operatrice sociale, badante, insegnante di ballo. Melara, per capirla, ripete, «bisogna viverci».
La promessa del Piccolo
Daniela inizia a mandare Whatsapp dalla sera prima del nostro appuntamento. «Quando scendi dal bus – scrive – fammi una video chiamata, che capisco dove ti sei perso». Il punto di ritrovo in realtà è semplice anche per chi Melara non la capisce: fermata della linea 22, all’ingresso del cubone lato pubblica biblioteca “Lina Marii Marinelli”. Proprio lì, in quel blocco di parole, due mesi, la seconda riunione in esterna della redazione del Piccolo si era chiusa con l’impegno: «Chiamateci, e torneremo».
No compassione ma attenzione
Daniela ci aspetta in fondo al primo tunnel in linoleum insieme alle amiche Katia Valenti, presidente dell’associazione residenti, e Sabrina Pertan, terza generazione melarina.
«L’importante è che non ne esca l’immagine di un’Alcatraz, di un Bronx sul mare»
raccomanda Sabrina, accompagnando all’interno del quadrilatero e indicandone gli angoli con le sneakers. «Noi non abbiamo bisogno di compassione», dice, perché a Melara «ci stiamo bene».
Anche se le pareti scrostate e piene di muffa cadono a pezzi e i ferri spuntano dalle strutture in cemento. Perché alla fine quel pavimento in gomma scollata porta alla Microarea, dove Renato, Saeta e gli altri anziani possono farsi compagnia. E quel tetto in vetro da cui entrano acqua piovana ed escrementi di piccioni lascia passare anche il sole, e così i bambini possono giocare a rincorrersi tra i corridoi di cemento.
La riqualificazione a lungo attesa
Altro impegno preso mesi fa: «Noi stiamo ancora aspettando il sindaco e il governatore», dicono i residenti.
Il progetto del maxi intervento di riqualificazione del quadrilatero c’era. «Esisteva un piano, ma non è mai stato portato a termine», precisa Katia, indicando i portoni dei civici, difettosi, e un’ampia parete a finestra: il vetro manca e qualcuno ha cercato di ripararla con una busta di plastica. «Ci hanno lasciati a noi stessi», dice: prima, almeno, c’era una cooperativa che faceva qualche manutenzione e dava lavoro.
«Ma adesso il rischio è che qui diventi un rione contenitore, come lo chiamavano all’inizio».
Il senso di appartenenza
Eppure all’interno del circolo Auser, dove incontriamo gli altri residenti, il senso di appartenenza resiste. Anche davanti alle incomprensioni dell’abitare condiviso. Viviana Sari riferisce di come i serramenti recentemente sostituiti dall’Ater siano «difettosi, con spifferi e infiltrazioni», delle caldaie «non a norma, mai cambiate dagli anni Novanta».
Di come «ci vorrebbero più controlli», perché «prima eravamo solo noi e – segnalano i residenti – adesso alla sera arrivano anche da fuori». L’ascensore è «spesso fuori uso», e così ci sono giorni in cui Cinzia Giamporcaro, caregiver dell’anziana madre, non può neanche arrivare alla Despar, «perché non saprei come fare con la sua sedia a rotelle».
A Melara bisogna viverci
A poco è servito, raccontano, segnalare tutto questo all’Ater.
«Cosa è cambiato da quando siete venuti? Niente. Anche loro non sono più venuti»
riferiscono le donne: saranno alla fine loro, Daniela, Sabrina, Katia a organizzarsi anche oggi per pulire e ridare dignità alle parti comuni. «Noi – dicono ancora le residenti – non abbiamo bisogno di compassione, ma solo di un po’ di manutenzione: nulla di più». A Melara, ripetono, «bisogna viverci».
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