Vienna, scontri e lotte di potere a Corte. L’approdo adriatico dell’Aquila bicipite

L’imperatore voleva, con Trieste, il controllo del Mediterraneo urtando soprattutto gli interessi di Venezia

Prima di diventare imperatore, Carlo VI d’Asburgo fu re di Spagna e lì fu affascinato da mare, velieri e commercio. Giunto a Vienna, affrontò le difficoltà finanziarie e la limitata potenza militare dell’Impero nel momento in cui, soprattutto col controllo del regno di Napoli, si apriva la possibilità di sfruttarne la ramificazione mediterranea. Con i suoi consiglieri invocava la formazione di una flotta militare per competere con le altre potenze. Tuttavia, se le necessità e i desideri di Carlo VI furono essenziali nel rendere permeabile la Corte ai progetti volti allo sviluppo di Trieste, non furono i motori di una politica lineare e centralistica. Il percorso che portò al porto franco fu più complesso, affascinante e ricco di protagonisti. Vienna era priva dei saperi utili per affrontare il mare e fu teatro di scontro tra diverse prospettive di crescita, sostenute da famiglie aristocratiche, da membri della burocrazia, da finanzieri e imprenditori con interessi personali nei progetti stessi.

La Repubblica Serenissima di Venezia temeva la comparsa di navi da guerra nell’Adriatico, dove pretendeva di avere il monopolio della forza, e la sovversione delle norme che sostenevano il ruolo del porto lagunare. Tuttavia, la sua capacità di imporre le proprie logiche commerciali era contrastata dalle piccole e medie marinerie di Adriatico e Mediterraneo e dalle forze mercantili raccordate a esse. Queste disegnarono un reticolo di rotte, caratterizzato dalla mobilità di donne e uomini e in cui erano protagoniste merci ‘pesanti’ e povere come materie prime e prodotti dell'agricoltura.

Tale cambiamento accompagnava l’evoluzione demografica e le trasformazioni dell’economia che sfociarono nella Rivoluzione Industriale. Così, mentre naviganti, avventurieri, ciarlatani e mercanti affollavano la Corte con le loro proposte appoggiati da sponsor più o meno potenti, l’idea del porto franco prese forma nei circuiti che connettevano Po, Penisola italiana, Regno di Napoli, Sicilia, Ionio e le sponde dell’Adriatico. In questo contesto le mire di Carlo VI, le pressioni di tali circuiti, le mosse di chi si opponeva a quei progetti, come la imperiale Bolzano, che con Venezia brigò in difesa della via dell’Adige, la scarsezza di risorse e conoscenze furono elementi del percorso che portò alla proclamazione della libertà di navigazione in Adriatico del 1717 e sfociò nell’editto del porto franco del 1719.

L’istituto del porto franco ha origine nel Mediterraneo dell’età moderna e fu un obbiettivo ‘mitico’ diffuso tra i porti anche piccoli. La sua essenza, però, muta nel tempo in base allo sviluppo degli Stati, delle tecniche commerciali e di trasporto e del sistema economico. Tali fattori ancora oggi ne determinano funzioni, ruolo e realtà. Nella Trieste del ‘700, dal punto di vista ‘fiscale’, col porto franco erano esenti da dazi le merci che arrivavano e ripartivano via mare, senza entrare nello spazio doganale asburgico. Quelle che vi entravano o uscivano, invece, li pagavano e su questo ci furono contrattazioni e frizioni tra Trieste e Vienna, con accuse di contrabbando da un lato e dall’altro illegalità, elusioni e proteste che assunsero pure la dimensione dello ‘sciopero bianco’.

Dall’editto Trieste ebbe vantaggi giurisdizionali. I poteri di governo si spostarono dalle aree interne alla città che divenne sede di importanti magistrature e fu centro amministrativo del Litorale. La separazione consentì margini di autonomia e opacità attirando, dati i modi di governo dell’Antico Regime, poteri decisionali e di controllo. La possibilità di godere di norme separate e il diffondersi delle notizie sulle possibilità del porto attirò donne e uomini. Poi l’editto offrì ai circuiti del mare protezione rispetto le norme della Serenissima, anche per quanto concerneva l’ingresso nel Po. Come scrisse un officiale veneziano, questo fece sanguinare il cuore del Doge. Comparvero per la prima volta imbarcazioni che navigavano inalberando la bandiera imperiale.

Le risorse impiegate da Vienna furono, però, limitate e le politiche errate. La Compagnia Orientale, ideata per incrementare i commerci con il Levante, ebbe vita breve e stentata. Se a Vienna fu soprattutto un investimento finanziario, nel mare si limitò a compiere qualche viaggio, per lo più diretto verso la Penisola italiana e il Ponente, con esiti insoddisfacenti. Il sistema fieristico ipotizzato per sostituirla durò pochi anni e poi le guerre attirarono le risorse dell’Impero. Tuttavia, la crescita di Trieste continuò grazie a circuiti mercantili capaci pure di sfruttare le occasioni offerte dalle necessità delle truppe. Così, quando alla metà del ‘700, l’Imperatrice Maria Teresa puntò di nuovo l’attenzione su Trieste, la trovò in crescita. Le spie veneziane, in precedenza pessimiste sulle sorti della città, constatarono che stava “prendendo il nome di porto franco”.

I flussi di donne e uomini avevano sostenuto un impressionante aumento del numero degli abitanti e il criterio della cittadinanza venne in buona parte sostituito con quello della residenza. Come ha scritto Claudio Minca, la domanda posta ai nuovi arrivati non fu ‘chi siete?’, ma ‘cosa sapete fare?’. Questo fece affluire competenze e capitali, dando vita a una società cosmopolita fondata su basi ‘materiali’ e formata da persone provenienti da luoghi diversi e con diverso credo e da elementi originari triestini. In città, oltre ai matrimoni incrociati, si poteva vedere un mercante cattolico che sceglieva un protestante come tutore per i figli, negozianti ortodossi che nominavano cattolici come arbitri delle contese, società commerciali composte da cattolici ed ebrei, cambiavalute mussulmani che si affidavano a tribunali locali per le loro liti. Vienna scelse il ceto mercantile come referente di governo e pure un altro gruppo cosmopolita, la burocrazia imperiale di stanza a Trieste, si raccordò con tale ceto, sostenendone le strategie. La citta era una città-porto e gli interessi connessi ai traffici rappresentavano il centro urbano. Attorno ai commerci si sviluppò un settore manifatturiero e artigianale, a sua volta motore di crescita.

Il porto raccoglieva ogni tipo di traffico, sfruttando la posizione di intermediazione tra terra e mare e tra Ponente e Levante. Due merci emergono. Il tallero d’argento di Maria Teresa, di cui furono coniati milioni di pezzi diretti verso il Levante, l’Africa e l’Asia, e il frumento che circolava nell’est Europa e nel Mediterraneo, arrivando alle Americhe. Altro elemento fondamentale fu il controllo delle informazioni. Così, in un contesto caratterizzato da promesse di libertà e successo e dalla voglia di intraprendere, tale insieme di fattori consentì a Trieste di assumere dimensione emporiale ed essere uno dei principali hub nei commerci globali. Se, come ha scritto Edoardo Grendi, la storia è una sorta di ‘auto coscienza’, la capacità di costruire immagini di sé e miti consapevoli può essere fattore di sviluppo nel presente. —

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