Vienna e Trieste, nei caffè l’antica anima e la gioventù
VIENNA
In questa doppia anima convivono dolce idillio e amara realtà, le forme bucoliche del Biedermeier e i corpi disperati di Schiele, i valzer di Strauss e la tragedia di Mayerling. Una seconda contraddizione si intravede negli interstizi di una società di forte tradizione cattolica che tutela i suo cittadini con rigore ma permette la vendita di alcolici ai minori, legalizza la prostituzione, e lascia fumare nei locali pubblici. La terza la troviamo fra le pagine della storia, in una città che si dice prima vittima del nazismo ma poi polemizza con il monumento della Judenplatz, il monolito di Rachel Whitread che ricorda i 65 mila ebrei austriaci uccisi nei campi di sterminio. Contraddizioni, frizioni, nodi da sciogliere: ci sono, ma per ora non sono riusciti a frenare una ripresa che data due decenni.
INCONTRI AL CAFFÈ
Si può guardare a tutto ciò anche comodamente seduti a un tavolino da caffè. I caffè di Vienna sono un deposito fluviale della Mitteleuropa che fu, un sedimento fossile che resiste allo scorrere del tempo. Ci vanno i turisti, certo, ma soprattutto i viennesi. Il caffè era, è e rimane il punto franco di una socialità borghese che non ama ritmi metropolitani globalizzati, fast food e McDonald’s. Non è una posa, è una necessità. Il Demel, il Café Frauenhuber, il Café Hawelka, il Landtmann, il Prückl, il Tirolerhof. E il Cafè Bräunerhof, dove sedeva Thomas Bernhard per meditare sulla «biederkeit», l’anima piccolo-borghese dei viennesi che lo scrittore tanto odiava. L’atmosfera, le pareti ingiallite, i tavolini, non sono poi così diversi da quelli del Caffé San Marco o degli altri caffè storici di Trieste.
Di nuovo, aria di casa. Persino l’amabile scortesia dei camerieri è familiare. Ci sono molti giovani, qualche turista, un paio di personaggi dall’aspetto triste, conversazioni a volume moderato. Il tempio laico della convivialità. Qualcuno si accende una sigaretta, l’odore acre e il fumo si spandono intorno e appaiono una novità per chi si è già abituato ai divieti salutisti d’Italia. Il gesto di accendere una sigaretta al caffè, qui a Vienna, alimenta il clima retrò e un po’ snob di questi locali che non potrebbero tollerare clienti ammassati fuori dalla porta a fumare. Ne andrebbe della loro identità. Ma non ci sono solo i caffè storici. Come in ogni metropoli, nella capitale austriaca la gente ha molti altri posti per divertirsi, soprattutto i giovani. La «movida» viennese fino a qualche tempo fa si addensava in una zona del centro delimitata da pub e locali alla moda evidenziata nelle guide turistiche come Triangolo delle Bermude. In realtà oggi i luoghi di aggregazione sono ovunque, la città allarga l’offerta e presenta le sue cattedrali del divertimento, come il Flex, mega discoteca molto di moda. Le ultime generazioni scalpitano: frequentano i caffè tradizionali, ma sanno che c’è dell’altro, e lo vogliono. E hanno meno paura dell’altrove di quanta ne abbiano ancora i loro genitori.
LA QUESTIONE XENOFOBA
A Vienna ha sede l’Osservatorio europeo dei fenomeni di razzismo e xenofobia, in sigla Eumc. È stato istituito nel 1997, e il suo scopo è di fornire alla Comunità europea «informazioni obiettive, attendibili e comparabili sui fenomeni di razzismo, xenofobia e antisemitismo a livello europeo», come recita lo statuto. Non è un caso che un organismo preposto alla lotta alla xenofobia abbia sede a Vienna. Qui il problema della paura dell’altro è più sentito di quanto si possa immaginare. I viennesi ne sono consapevoli, per loro è una specie di malattia radicata di cui cercano in ogni modo di liberarsi. In città ci sono molti immigrati, soprattutto croati e serbi, turchi, comunità di musulmani, tutti perfettamente integrati nella vita sociale. Ma dopo tre anni non si sono ancora spente polemiche e imbarazzi per l’operazione Spring del 2003, quando un’intera comunità di nigeriani venne presa di mira dalla polizia con l’accusa di spaccio di droga, e i mass media tennero bordone a una valanga di accuse poi risultate in buona parte infondate.
Nessuno pagò per quegli errori. Oggi un muro invisibile tiene lontanti gli africani: Vienna è forse l’unica capitale europea dove è raro vedere in giro per le strade gente di colore. E non si sono nemmeno spente le polemiche per i due monumenti contro lo sterminio degli ebrei, il Memoriale per le vittime del fascismo, opera di Alfred Hrdlicka del 1988 in Albertinplatz, e il più recente monumento nella Judenplatz di Whitread. Il primo venne criticato persino dagli ebrei, che videro nella statuta in bronzo del vecchio semita chinato a terra e coperto di filo spinato quasi una caricatura; il secondo, inaugurato nel 2000, ha avuto una gestazione difficile e accompagnata da forti polemiche. Sono due opere eloquenti, emozionali, di forte impatto: una crepa aperta verso l’abisso in un tessuto urbano ammantato di ori e di stucchi, e in mezzo alle vetrine con i cioccolatini, le Sissi e i baffoni di Francesco Giuseppe ricordano ogni giorno ai viennesi ciò che loro stessi - con indubbio coraggio - vogliono sia ricordato, e cioè che alcune questioni prima o poi dovranno essere affrontate e superate una volta per sempre, per mollare definitivamente il freno verso un’internazionalizzazione che diventi orizzonte di tutti. Sentimento comprensibile per chi viene da Trieste, ed è alle prese con faccende analoghe, anche se di origine e marca diversa.
MUSICA
Per fortuna c’è la musica. Come per i caffè, anche la musica a Vienna ha un significato che va al di là dei cliché ad uso turistico. Qui la musica è un fluido vitale che gira ovunque. Non è come a Salisburgo, dove tutto ruota attorno al Festival, una volta all’anno. A Vienna la musica scorre in ogni stagione, dal Theater an der Wien alla Musikverein alla Konzerthaus fino a una serie infinita di locali, circoli, sale concerto. Non è una virtù smaccatamente esibita, ma una tensione costante che percorre vie, strade e marciapiedi, e la sera vibra in un insieme di suoni e melodie che sembrano uscire dai muri della case. Vienna è davvero il tempio della musica classica (molto meno del jazz, checché se ne dica), e del teatro (ci sono almeno 30 compagnie). È un ricchezza che non ha bisogno di essere sbandierata, e rappresenta - assieme all’arte figurativa - l’additivo nel carburante per la ripresa economica della città (forse anche in questo Trieste farebbe bene ad ascoltare i consigli della vecchia madre).
LE VIE DELL’ARTE
Ma per capire davvero quanto oggi Vienna tenti di staccarsi dagli ormeggi del passato in una costante tensione verso il futuro bisogna visitare il Belvedere. Qui, in questo imponente castello voluto dal principe Eugenio di Savoia e realizzato da Lukas von Hildebrandt su un’altura che domina l’Hofburg, dove si gode come dall’abbaino di una soffitta il panorama dei tetti, delle guglie e delle gru dei tanti cantieri aperti in città, ha sede la Galleria austriaca. All’ultimo piano c’è il Biedermeier, in quello di sotto una ricca collezione sistemata in maniera un po’ confusa e decicata soprattutto al Secessionismo. L’onnipresente Schiele, e poi Klimt, Faistauer, Peschka, Horowitz, Kokoscka: in pratica tutta la banda che seppe tradurre in arte sublime la corsa dell’Occidente verso la catastrofe. Anche qui si respira un che di familiare, con quei ritratti di anime affilate così riconoscibili in un ordito storico e sociale tanto a lungo condiviso.
E non viene da meravigliarsi quando, girando per le sale, ci si imbatte nelle «Boot in hafen von Triest», le barche nel porto di Trieste di Schiele, opera del 1907, in cui tratti e colori che fanno subito scattare il meccanismo del riconoscimento. Al piano terra, invece, ci sono le sale dedicate all’arte contemporanea. In questi giorni è ospite Roland Goeschl, uno dei geni ancora a spasso per l’Europa con le sue sculture gialle, rosse e blu. I turisti lo snobbano, preferendo salire gli scaloni verso gli splendidi spettri della Secessione, eppure in quelle forme elementari che cercano di ridisegnare nuovi spazi e nuove idee c’è tutto lo sforzo di artisti, urbanisti, architetti - come il gruppo della Coop Himmelblau -, per tentare fughe in avanti dagli esiti spesso controversi e contestati. E noi, da questa parte delle Alpi, cosa possiamo offrire in campo culturale? Cosa ci chiedono i viennesi per arricchire i loro cervelli? (Ancora una parentesi: i viennesi adorano l’Italia.
Ai mondiali di calcio la partita di semifinale con la Germania è stata seguita con passione, e tutti tifavano per gli azzurri. E in questi giorni nelle vie della città si vede ancora qua è là qualche tricolore). All’Istituto italiano di cultura di Vienna, al numero 43 di Ungargasse, parlano di «cultura di nicchia». L’opera lirica, certo, qualche scrittore, ovviamente, senza dubbio la moda, ma quel che chiedono i viennesi è prima di tutto cinema. Buon cinema. Quello della Grande abbuffata, per esempio, la pellicola di Marco Ferreri (1973) con Marcello Mastroianni e Ugo Tognazzi, forse il film più aspro della carriera di Ferreri. La prossima rassegna cinematografica proposta dall’Istituto a partire da ottobre si intolerà proprio così: «La magnifica ossessione: gli italiani e il cibo», visto che - ricordano all’Istituto - cibo e gusto testimoniano la cultura del tempo. Chiedere agli italiani come se la cavano con le loro ossessioni: anche questo è un segno di quel sottile disagio che si respira a Vienna. Ma la vera ossessione, la parola che oggi fa più paura alla capitale austriaca è immobilismo. Per questo i viennesi da un lato si aggrappano ai brandelli della Mitteleuropa nel timore di smarrire la propria identità, dall’altro corrono verso il domani consapevoli di quanto il passato possa facilmente trasformarsi da feconda tradizione a insopportabile zavorra.
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