Viaggio al Cavern di Liverpool
LIVERPOOL. Se a Londra il 10 per antonomasia è quello di Downing Street, a Liverpool il numero magico ti porta dritto a Mathew Street. Dove entri in un altro portoncino nero, scendi quattro rampe di scale strette e abbastanza buie, e come d’incanto ti trovi trasportato nel mondo (che fu) dei Beatles. Signori, benvenuti al Cavern Club, il locale dove quattro ragazzi cambiarono, oltre alla propria, la vita di milioni di persone.
Certo, nella città che sorge sull’estuario del fiume Mersey (e infatti all’inizio lo chiamavano il Mersey beat...) c’è il museo dei Beatles all’Albert Dock, dove per sedici sterline e una manciata di penny ti ripropongono vita morte e miracoli dei Fab Four. E poi Strawberry Field Community Home, l’ex orfanotrofio che ispirò a John Lennon “Strawberry fields forever”. E ancora Penny Lane, nel quartiere Church, la cui scritta stradale contende a quella londinese di Abbey Road la palma della fotografia più ambita da generazioni di beatlesiani. E la casa della famiglia McCartney al numero 20 di Forthlin Road; la villetta al 251 di Menlove Avenue dove John visse con la zia Mimi e il marito; l’abitazione popolare al 25 di Upton Green, estrema periferia sud, e quella in Madryn Street, zona operaia del Dingle, dove nacquero rispettivamente George Harrison e Ringo Starr.
Ma se a Liverpool c’è un luogo dove l’atmosfera sembra ancora quella di cinquant’anni fa, ebbene, questo è il Cavern. È in pieno centro, a due passi dall’affollatissima zona pedonale di Lord Street. I Beatles vi esordirono il 9 febbraio 1961, suonandovi poi altre trecento volte o giù di lì, fino all’ultima, il 3 agosto 1963, quando la loro fama ormai planetaria richiedeva spazi ben più ampi (mezzo secolo fa, di questi tempi, erano per la prima volta ai vertici delle classifiche con il singolo e l’album “Please please me”).
Entri e ti trovi circondato da vecchi strumenti in bacheca (tra cui lo storico basso Höfner di Paul), locandine e manifesti ingialliti, fotografie in bianco e nero, l’inevitabile merchandising che ruota attorno a un business, quello dei Beatles, attorno al quale negli ultimi decenni è rinata l’intera città, un tempo povera e oggi florida anche grazie a loro.
Al Cavern non si paga biglietto d’ingresso. C’è musica ogni giorno, dal lunedì al giovedì si comincia alle due del pomeriggio, dal venerdì alla domenica si parte già a mezzogiorno. Solisti e gruppi - quasi sempre dilettanti nel senso più nobile del termine - si alternano sul minuscolo palco, le canzoni manco a dirlo sono quelle dei quattro, la gente beve birra e a volte canta in coro. Clima festaiolo, insomma.
Il club all’inizio era un locale dove si suonava jazz. Inaugurato nel gennaio ’57 laddove precedentemente c’era un magazzino ortofrutticolo, usato durante la guerra come rifugio antiaereo, dopo un paio d’anni fu riconvertito dai nuovi gestori in locale dove si esibivano i gruppi di rock’n roll.
Nel maggio ’60, alla prima “Beat night” parteciparono fra gli altri Rory Storm and the Hurricanes, con un giovane Ringo Starr alla batteria. Meno di un anno dopo, nel febbraio ’61, al ritorno dai mesi trascorsi ad Amburgo, vi planarono per la prima volta i Beatles. Che proprio lì furono avvicinati da Brian Epstein, l’uomo che li trasformò in star planetarie.
Fra gli anni Sessanta e i primissimi Settanta nel locale suonarono fra gli altri Rolling Stones, Yardbirds, Kinks, Elton John, Who. Prima della chiusura, nel maggio del ’73, per far posto a un parcheggio e a un condotto di ventilazione per la metropolitana. Ma dopo l’assassinio di John, l’8 dicembre dell’80, il Comune promosse la ricostruzione del locale, sempre in Mathew Street, praticamente a fianco dell’originale. Per l’opera furono reimpiegati i mattoni originali, che oggi sono interamente occupati dalle firme dei fan e dei visitatori.
All’esterno, davanti all’ingresso, sulla “Carvern wall of fame”, altri mattoni recano i 1801 nomi dei musicisti che in tutti questi anni si sono esibiti nel locale. Ogni mattone, un nome. Attorno a quelli dei quattro Beatles. All’interno, sulla riproduzione del fondale originale, fatta realizzare da Ringo a metà degli anni Ottanta, gli autografi degli artisti che si esibirono nel locale negli anni Sessanta.
Qui più che altrove, come si diceva, l’appassionato e il semplice curioso hanno l’adrenalinica sensazione di essere nei luoghi dove mezzo secolo fa quattro ragazzi hanno cambiato la storia della musica e del costume del Novecento.
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