Vespignani: una ricaduta sarebbe un disastro
TRIESTE. «Grazie al lockdown abbiamo raggiunto un buon abbassamento degli indicatori dell’epidemia, ma gli effetti dell’allentamento delle misure restrittive li vedremo solo tra una decina di giorni. Non conviene rilassarsi troppo, perché nonostante i 30mila morti in meno di tre mesi un’infrastruttura per far fronte a questa pandemia l’Italia non l’ha ancora messa in piedi. E per strada non abbiamo quei 4,5 milioni di lavoratori previsti per la fase due, ma decine di milioni di persone».
Alessandro Vespignani, romano, epidemiologo computazionale della Northwestern University di Boston, una carriera che l’ha portato per 5 anni anche all’Ictp di Trieste, non nasconde la sua preoccupazione per il modo in cui stiamo affrontando questa fase di riaperture. Ha appena tenuto un webinaro per gli studenti della Sissa.
«Capisco che emotivamente il lockdown sia stato pesante per molte persone, e so benissimo che anche le crisi economiche mietono vittime, ma proprio per evitare una seconda chiusura totale il governo dovrebbe adottare un approccio diverso», dice il docente. Vespignani è un sostenitore della strategia delle tre T - testare, tracciare, trattare -, ma non intesa in modo semplicistico.
«E’ chiaro che non possiamo fare tamponi a tutta la popolazione e che non sarà un’app a salvarci - commenta -. Basterebbe testare almeno i sintomatici, avere i risultati entro 24 ore e, una volta identificati, capire con chi sono stati in contatto, andare da queste persone e isolare lor e la loro famiglia. Si dovrebbero assumere 10 mila tracciatori, persone che non necessitano di specializzazioni, da formare in brevissimo tempo e mettere sul campo.
Perché le persone non stanno in autoisolamento solo perché hanno ricevuto un sms sullo smartphone che li avvisa del possibile contagio: serve il lato umano, qualcuno che li chiami, che ne segua la quarantena e li rassicuri. Certo che è una strategia che richiede sforzi e denaro, ma un secondo lockdown costerebbe molto di più. Fatta eccezione per la Germania, non c’è Paese occidentale che abbia messo in pratica una vera strategia. In Asia c’è chi ha fatto meglio, ma attuando forme di controllo che da noi non sarebbero mai state accettate e con un’importante esperienza pregressa in tema d’epidemie».
Che, dice Vespignani dovremmo farci anche noi: le epidemie, complice un mondo iperconnesso e globalizzato, sono diventate più frequenti. E nulla fa pensare che questa tendenza cambierà nel prossimo futuro.
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