Verso il Monte Rosso dove Kipling sentiva l'urlo delle mitragliatrici

MONTE ROSSO Scendendo verso la Batognica, Monte Rosso, ci imbattiamo nella carcassa di un cannone, portato quassù con l'ausilio di un elicottero. È un'area che in sloveno viene chiamata Krnska Škrbina, o come la denominarono gli alpini del battaglione Val Tanaro "Colletta Sonza". Conquistata la cima del Monte Nero, il 16 giugno, i soldati guidati del capitano Vincenzo Arbarello avrebbero potuto raggiungere la vetta del Monte Rosso. Arbarello ne era convinto, tuttavia, il tenente colonnello Pozzi, comandante del battaglione alpino Exilles, ordinò di rimanere nelle postazioni appena conquistate, per timore di contrattacchi nemici. La nebbia svanisce. Il sentiero che gradualmente ci riporta verso valle sembra una serpentina bianca lungo versanti umidi. I fili d'erba poggiano gentilmente sul selciato, mentre granelli di pietra rotolano da una parte all'altra della pista che stiamo seguendo. Un sentiero che porta i segni delle disgrazie. C'è una sorta di doppio filo con la morte, nei luoghi che vissero la prima guerra mondiale. Che siano le Fiandre, il fronte del Piave oppure l'Isonzo, si trovano nelle cronache, a cent'anni di distanza, passaggi a miglior vita che apparentemente c'entrerebbero poco con il conflitto.

Eppure gli operai morti nella primavera del 2014 ad Ypres, saltati in aria a causa di una granata inesplosa nei pressi della linea del fronte, oppure Aldo Busato deceduto mentre stava disinnescando un ordigno della Prima guerra mondiale nei pressi di Passerella di San Donà di Piave, sono tutte vittime di questo conflitto. Ad un secolo di distanza. La Regione Veneto, in seguito alla morte di Busato, ha istituito un patentino per recuperanti, così, forse, da evitare la perdita di vite. Il versante della montagna sacra agli sloveni può toccare punte di pendenza oltre il 25 per cento. Durante gli inverni, quando qui il ghiaccio e la neve anestetizzano la terra, a volte capita che qualche avventuriero rimanga vittima della Natura. Un po' come in guerra. Vincenzo Arbarello, aprile 1917, Val Chiarsò, travolto da una valanga . "Credevo di morire diversamente: ho cercato di aiutare il mio tenente Botasso in tutti i modi ma inutilmente: muoio asfissiato nel nome d'Italia". Medaglia d'argento.
Il silenzio incute un leggero timore. Quello di non essere all'altezza. Di dimenticare qualcosa, o meglio, qualcuno. Siamo veramente in grado di guardare alla nostra memoria, al nostro passato e di incamerarne i diversi livelli di sedimentazione per poi, finalmente, raggiungere una linea di comprensione? Siamo certi che Marc Bloch venga studiato per quello che fu capace di trasmettere? Impariamo ancora dalla Storia oppure ci sottraiamo quotidianamente, nel far finta di non vedere, in quella consapevole incapacità di riconoscere tra l'inutile ed il necessario?
In cima al Monte Rosso non ci andiamo. La vetta è coperta dalle nuvole e Joško ci dice che non è il caso di salire. Il sentiero si fa ripido. Muraglioni di calcare bianco. Il gruppo ogni tanto si sfalda, chi scende veloce, chi un po' meno. Non ha importanza. Si può essere in cammino anche quando non si è mano nella mano. L'evocazione dei morti forse passa proprio attraverso l'introspezione. Qualcuno si volta ed osserva le cime delle montagne tutt'attorno. C'è difficoltà nel descrivere tutto ciò. Rudyard Kipling l'11 maggio del 1917, ancora corrispondente di guerra sul fronte italiano: «Per tutto il tempo le mitragliatrici sparavano le une contro le altre. Tutto il paesaggio attorno era bucherellato da crateri provocati dalle granate. L'immensità del paesaggio rimpicciolisce ogni confronto. Non saprei veramente come descriverla».
Forse solo il silenzio aiuta. La piana di Planina Kuhinja ci viene incontro. Terza ora di cammino. Cerchio di energia vicino al rifugio. Pietre sistemate con precisione. Da quanto tempo esiste tutto ciò? Quanti anni fa è stato scoperto? I soldati che qui sostarono durante la guerra si resero conto di qualcosa? Entriamo all'interno. Joško racconta che alcuni studiosi sostengono l'esistenza di questo cerchio da 4500 anni. Non c'è stupore nel trovare proprio qui, alle pendici di questi monti, rappresentazioni sensoriali di genere. C'è invece, quella consapevolezza che il cammino conferisce, soprattutto quando i passi si incollano a questa terra. Irene scherza con alcuni cavalli liberi. Piove. Si scappa verso il rifugio. Nuovamente facce stanche. Stiamo concludendo questo viaggio. Che in fondo, dovrebbe essere solamente la partenza. Percorsi umani, per incontrare quell'umanità distrutta.
La pioggia s'interrompe quasi subito. Terra bagnata. Domani arriviamo a Caporetto. In discesa, un po' come quelli che da qui scapparono in quell'ottobre del 1917. La XII Divisione tedesca era stata scambiata dagli italiani per una colonna di prigionieri e per questo non venne attaccata. Le truppe rimaste sul Monte Nero, accortesi della trappola, avevano dovuto arrendersi. E scendere a valle. È una storia che non ci raccontiamo mai volentieri, quella di Caporetto.
Quanta importanza ha prestare attenzione alla salma di quel soldato tedesco recuperato dagli italiani sul greto dell'Isonzo nei giorni precedenti all'attacco? Si poteva evitare quel massacro? Quali le responsabilità nella catena di comando italiana? Forse non è indispensabile interrogarsi. Piove di nuovo. E guardando la piana davanti a noi, protetti dalla tettoia del rifugio, il rumore meccanico della pioggia scandisce l'istante nel quale chiudere gli occhi diventa l'unica risposta possibile.
(7 - Continua. Le altre puntate sono state pubblicati il 28 giugno, il 5, 19, 26 luglio, il 1 e l8 agosto)
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