Ventisei anni fa la tragedia di Mostar: «Il ricordo serve se aiuta a leggere l’oggi»
TRIESTE «Il ricordo ha senso se è una lente che aiuta a leggere la realtà». Daniela Schifani Corfini Luchetta commenta così lo scoccare del ventiseiesimo anno dal 28 gennaio 1994 in cui i componenti della troupe della Rai di Trieste Marco Luchetta, Alessandro Ota e Dario D’Angelo vennero uccisi da una granata a Mostar.
Ricordare quel terribile evento, spiega la vedova di Luchetta, è utile se aiuta a comprendere ciò che accade nel nostro presente: «Lo vediamo anche in queste ore, con la Giornata della Memoria - afferma -. Certamente la vicenda di Marco è un avvenimento di diverso carattere, ma è comunque una storia di guerra. Ricordare deve aiutarci a capire che le condizioni che hanno causato avvenimenti drammatici possono ripetersi». È una consapevolezza, questa, che secondo Daniela Luchetta «una parte del nostro Paese sembra aver perso»: «I nazionalismi e i razzismi portano alla guerra e ai suoi lutti - dice -. Questa in fondo è la lezione di quanto avvenuto con la dissoluzione dell’ex Jugoslavia».
I fatti di Mostar sono anche un monito per un giornalismo cosciente delle proprie responsabilità: «Il giornalismo è un mestiere che, fatto in un certo modo, comporta dei rischi. Ma i giornalisti possono decidere se dare risalto a una notizia oppure minimizzarla, è una grandissima responsabilità. Per essere all’altezza di questo ruolo servono delle caratteristiche, che sono l’onestà intellettuale, la correttezza e la sensibilità del giornalista. Mi pare che a volte, magari per inseguire uno scoop, la sensibilità venga spesso meno, mentre è un tratto da difendere, non meno importante degli altri».
Daniela Luchetta è anche la presidente della Fondazione intitolata ai tre giornalisti morti in Erzegovina (e poi anche a Miran Hrovatin, ucciso in Somalia assieme a Ilaria Alpi), che a partire da quella esperienza ha cambiato le vite di centinaia di giovanissime vittime della guerra: «In questi anni abbiamo aiutato oltre 800 bambini con più di 1500 accompagnatori. È una soddisfazione straordinaria, tanto che ancora oggi stento a crederlo».
Quel che nessuno si aspettava, argomenta la presidente, «era che questa idea si rivelasse tanto duratura nel tempo»: «Noi non prendiamo finanziamenti pubblici, viviamo solo di elargizioni - spiega Luchetta - e il continuo sostegno che abbiamo avuto dai cittadini conferma che stiamo svolgendo un lavoro importante».
Un lavoro che ormai non si limita all’assistenza sociale e sanitaria ai bambini vittime della guerra, ma da tempo si è esteso alla lotta al disagio anche sul territorio cittadino: «La Fondazione Luchetta è attiva anche nel sociale in città. Penso ad esempio al lavoro che facciamo nella microarea di Montebello, o ancora con il banco alimentare e le attività di raccolta che facciamo in favore delle famiglie più in difficoltà - conclude la presidente della Fondazione -. Insomma, dopo tanti anni mi pare ormai che possiamo dire di essere qualcuno a Trieste». —
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