Vecchio scalo modello Amburgo ma togliamo i parcheggi dalle Rive

Trieste non si affidi alla solita veeemenza dei maxi-progetti mettendo a rischio le proprie reali esigenze. C’è spazio per i pionieri di oggi e i decisori di domani

*Traduzione in italiano a cura di Alessandra Appel-Palma e Lidia Nonat

Tutte le volte che da studente mi recavo a Trieste, mi fermavo sull’altura dell’Obelisco e i miei pensieri andavano alle stupende vedute panoramiche di questa città polifonica disegnate da Karl Friedrich Schinkel nell’Ottocento. Appena però mi avvicinavo al porto e alle Rive, gli oltre 60 ettari dell’area dismessa del Porto vecchio e il bacino vuoto sembravano interrompere e ingiuriare al contempo l’idilliaco scenario di Schinkel. Questa cerniera tra il solido e il liquido continua a essere per me ancora oggi il brand più emblematico della città. Essa congiunge infatti quello che era il crogiolo mitteleuropeo asburgico con l’area mediterranea dell’Adriatico. L’antropologo e architetto Gottfried Semper per definire questa simbolica dicotomia utilizzò le immagini ancora valide di orlo e sutura. Questa cerniera dal volto graffiato, cementatosi nei decenni passati, sembra ancora attendere le squadre di risanamento.

I triestini, a dispetto dei numerosi programmi di innovazione, dei concorsi internazionali e delle varie promesse di investimento, si sono ormai abituati a una certa situazione di stallo, poiché, fedeli alla loro mentalità epicurea, sono del parere che in fondo così male qui non si viva.

Il carosello dei turisti è alla ricerca delle consuete destinazioni letterarie legate a Rilke, Joyce, Svevo e Saba. E per finire il vuoto surreale del porto incontra le fatidiche immagini di un mare che si perde all’orizzonte dipinte da Casper David Friedrich e Giorgio De Chirico. Sullo sfondo della vita cittadina i tranquilli palazzi del classicismo monarchico regalano conforto, carichi come sono di echi di Francia e Austria, in assoluto contrasto con lo splendore delle facciate di quella che era una maîtresse sgradita e osteggiata, Venezia.

Attualmente a Trieste si sta gonfiando aggressivamente una bolla di new economy, con Turchia, Russia e Cina a sgomitare. La città si sta svegliando da quella sua tanto criticata inerzia e, armata di nuova fiducia in se stessa, si è messa alla ricerca di un nuovo posizionamento. Proprio nel bel mezzo del processo di erosione delle nostre democrazie e della frammentazione turbocapitalista della società, potrebbe emergere una nuova forza suggestiva, di sprone all’ottimismo. Ed è in questo contesto che, come architetto, punto la mia attenzione sulle strategie di progettazione per l’area del Porto vecchio. È indubbio che, vista anche la concorrenza di altre città portuali riqualificate, Trieste deve riuscire a proiettare l’immagine di una smart city virale, una sede di grande potenziale, che non teme la concorrenza globale.

Come tuttavia ci insegna l’esperienza, a prescindere dal rispetto per l’igiene archi-culturale del centro città, è altrettanto importante non puntare su effimeri “effetti Bilbao” o su analoghi artefatti che puntano sulla spettacolarizzazione, ma implementare nuovi simboli, asset. Nel caso di Trieste non si tratta di stimolare la crescita demografica, ma di realizzare progetti ispiratori emblematici, singolari, come si è riuscito a fare a Marsiglia, a Valencia e ad Amburgo. Si è infatti visto che poi, parallelamente, si sviluppa anche una nuova realtà economica. Le tesi della rinomata società di consulenza manageriale McKinsey ci insegnano che il mero fantasticare di un approccio economico conservatore non porta a creare una sede concorrenziale. Sembra che ai giorni nostri soltanto una combinazione strategica tra orientamento alla crescita e produzione di immagine possa generare dei risultati. Nell’ottica di un marketing urbano di successo la massima è che chi non si fa notare non verrà notato. Pertanto, per disporre di uno strumento d’intervento dinamico è necessario in primo luogo poter contare sul commitment di tutti i livelli istituzionali, dunque dello Stato, della Regione e del Comune. Solo a questo punto si potrà finalmente elaborare un modello generale o un masterplan articolato in diverse fasi.

La ristrutturazione dell’area dismessa del Porto vecchio deve prevedere l’abolizione lungo le Rive del più esteso parcheggio lineare in Europa, un’onta della nostra società dei consumi. Una tale cicatrice non può deturpare un classico lungomare, requisito essenziale di una città marittima come Trieste. Grazie alle nuove tecnologie la realizzazione di garage “sommersi” costerebbe la metà rispetto a dieci anni fa, come io stesso sto sperimentando come architetto nella costruzione, molto più complessa, di una stazione della metropolitana di Napoli. Si tratta di una soluzione che verrebbe certamente accolta particolarmente bene dai nuovi investitori.

Per realizzare tutte queste misure, che garantirebbero la competitività con le strutture portuali veneziane, slovene, croate e di altre località europee, è necessaria ai giorni nostri anche una costruzione mediatica di realtà politiche. La nuova generazione di sociologi ed economisti sostiene che non è determinante il valore materiale di scambio dei centri ma lo sono le caratteristiche di dotazione e i dati di benchmarking puri. Conta sempre di più il valore simbolico dell’immagine. I simboli costruiti si sottraggono al rimprovero di essere un mero effetto collaterale di produzione – l’apparenza determina l’essere – e ciò diviene la regola di base dell’economia dei segni. Coloro che non sono in grado di leggere, di comprendere il tempo attuale, possono anche rigettare questo pensiero. Ma così facendo si sottraggono al gioco della concorrenza fra sedi.

D’altra parte nel caso un’eccessiva concentrazione sulla nuova localizzazione, nel nostro caso sul Porto Vecchio, minacciasse la coesione di governance e branding, ne deriverebbe anche un danno per il valore di mercato della location nel suo complesso. Uno squilibrio tra la città così com’è attualmente e un Porto vecchio rivitalizzato potrebbe rivelarsi un problema: ciò che si realizza da un lato toglie pressione dall’altro. Un fenomeno questo che in molte città portuali europee riqualificate sconvolge la fragile struttura del mercato. E ciò accade nonostante l’encomiabile mobilizzazione di capitale privato.

A mio avviso per il nuovo Porto vecchio bisognerà puntare sui fattori di localizzazione soft. Secondo recenti studi di sociologia urbana, non sono tanto i white collar corteggiati dal mainstream dell’industria immobiliare, quanto gli urban bohemian a rappresentare la forza trainante dell’innovazione economica. È quanto si osserva nelle creative city con il loro mix di talento, tecnologia e tolleranza. La progettazione dell’hardware è una parte, ma determinante è il software: la qualità della vita, la varietà e l’apertura. Il Porto vecchio non dev’essere una decalcomania della metropolizzazione.

Trieste non può affidarsi alla consueta veemenza dei maxi-progetti, mettendo a rischio le proprie reali esigenze. La riqualificazione di quest’area lasciata a se stessa nel luogo più privilegiato della città deve anche dare spazio all’esperimento, all’incalcolabile, e creare così la nicchia necessaria per i pionieri di oggi e i decisori di domani. –

Traduzione in italiano a cura di

Alessandra Appel-Palma e Lidia Nonato
 

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