Valerio Magrelli: Scrittore per colpa della moto»
di Alessandro Mezzena Lona
Forse è iniziato un giorno per caso, guardandosi allo specchio. Quando Valerio Magrelli ha scoperto, sul proprio volto, un’espressione che era stata del padre. Poi, appunto dopo appunto, pagina dopo pagina, il progetto di costruire un romanzo sulla figura del genitore ha preso forma in dieci lunghi anni di lavoro. Fino a diventare un libro che è approdato nella cinquina di finalisti del Premio Campiello. Sabato 7 settembre verrà proclamato il vincitore per il 2013 al Teatro la Fenice di Venezia.
Poeta tra i più apprezzati in Italia, romano, classe 1957, docente di Letteratura francese all’Università di Cassino, Magrelli ha ricostruito la figura del padre in un libro dalle simmetrie perfette. “Geologia di un padre” (Einaudi) è composto da 83 capitoli, tanti quanti gli anni vissuti dal genitore. Si apre con una sorta di prefazione muta, fatta tutta di disegni, e si chiude con le “Cronache del Pleistocene”: quattro poesie sulla memoria, sul passaggio di consegne tra genitori e figli.
“Geologia di un padre” è una matassa di storie che raccontano un uomo innamorato del Borromini, incapace di contenere i propri scoppi d’ira. Una presenza forte che la Morte si porta via lasciando il ricordo dei viaggi in auto d’estate in giro per l’Italia, le cose della vita che gli piacevano e non, gli episodi del tempo di guerra, la reminiscenza dell’amore. Ma anche i momenti tragici del decadimento fisico, l’angoscia della malattia, dell’agonia, dell’avvicinarsi alla fine.
Mentre aspetta la finale del Campiello, con grande serenità, Magrelli sta ultimando un nuovo lavoro. «Un libro di poesie - rivela -. L’ultimo è uscito, ormai, otto anni fa». Versi che si aggiungeranno a quelli apprezzatissimi di “Ora serrata retinae”, “Nature e venature”, “Esercizi di tiptologia”.
«Per molti anni ho cercato inutilmente di scrivere dei testi in prosa - racconta Valerio Magrellio -, ma mi sono trovato sempre a fallire. E tutto questo avveniva prima che io iniziassi a dedicarmi alla poesia. Mi ero quasi rassegnato. Avevo preso atto, insomma, del fatto che la narrativa non faceva per me».
Che cosa la bloccava?
«Può far sorridere, ma la mia difficoltà era legata ai nomi dei personaggi. Mi sembravano finti, poco credibili».
Poi cos’è cambiato?
«Sono trascorsi dodici anni dal mio primo libro di poesia “Ora serrata retinae”. Un amico carissimo, Gianni Celati, mi ha chiamato un giorno per propormi di scrivere un racconto da pubblicare su una rivista».
E lei?
«Sono caduto dalle nuvole, ho tentato di spiegargli che la narrativa non faceva per me. Alla fine, non potendo dire di no, sono riuscito a trovare la formula giusta».
Qual era?
«Una sorta di saggismo autobiografico condito con aneddoti, storie, racconti. Così sono riuscito ad aggirare l’ostacolo dei nomi, che in pratica non c’erano».
A quel punto ha trovato la strada giusta...
«Tanto da scrivere e pubblicare tre libri: “Nel condominio di carne”, che ha come tema il corpo e mi è costato quasi dieci anni di lavoro; ”La vicevita”, nato su suggerimento di un’amica che lavora alla Laterza: testimonianza del mio grande amore per i treni. Quest’anno festeggio le nozze d’oro con il pendolarismo. Vivo a Roma e insegno all’Università di Cassino, ma prima ancora ero a Pisa. E ho studiato a Parigi. Infine “Addio al calcio”, che se vogliamo anticipa i temi di “Geologia di un padre”».
In che senso?
«In quel libro analizzavo le trasformazioni del calcio come pratica identitaria. Come dire, il calcio che appassionava mio padre era molto diverso da quello che ho seguito io. E se penso, poi, che mio figlio si rattrista se perde quando gioca alla playstation, mi accorgo di come si sia evoluto ulteriormente l’approccio al pallone».
E “Geologia di un padre”?
«Per dieci anni sono andato avanti a prendere appunti. Poi ho deciso di scrivere il romanzo, che chiude un percorso aperto dagli altri tre. Adesso mi accorgo che, in sostanza, ho scritto un unico libro, anche se diviso in quattro. E l’ho fatto con grande simmetria».
Quale sarebbe la simmetria?
«Mentre il secondo e il terzo li ho scritti di slancio, per scappare anche un po’ da momenti difficili della vita, quasi come l’abate Faria quando scava il suo tunnel per la fuga nel “Conte di Montecristo”, il primo e il quarto hanno richiesto almeno dieci anni di lavoro l’uno».
I numeri hanno un ruolo importante nei suoi libri...
«Dedico molto tempo all’elaborazione dei miei libri, quando la scrittura ha fatto il suo corso. Gli aspetti numerici, visivi. La copertina del “Condominio di carne” l’ho fatta io utilizzando una mia radiografia che ho intitolato “Autoritratto”. In “Geologia di un padre” ho cercato, invece, di aggirare un maestro della letteratura del ’900 che è W.G. Sebald. L’autore di “Austerlitz” e altri capolavori».
Sebald per le sue contaminazioni?
«Avrei voluto fare come lui, che inframezzava al testo fotografie, disegni. Ma mi sarei messo in una posizione epigonica. sarei stato un imitatore. Per evitare questo, ho pensato alla prefazione muta che raccoglie alcuni disegni di mio padre. E che conserva il titolo originale pensato per il libro».
L’uomo di Pofi?
«Titolo che non piaceva a nessuno: a mia moglie, ai miei figli, all’editore, all’agente, agli amici. Così ho utilizzato il sottotitolo, “Geologia di un padre”, mantenendo quello per la prefazione muta».
Difficile raccontare il proprio padre...
«Ho dovuto usare una specie di zoom. Come filare un tessuto, facendo andare l’ago avanti e indietro. Passando da momenti quasi intollerabili per un figlio, come quando nel capitolo “Le Idi” descrivo la sua agonia, a passaggi ironici come quando descrivo il suo bagno al mare».
Strada facendo ha scoperto in lei una mutazione...
«In una delle poesie che chiude il libro, “A Giacinto, mio padre”, scrivo: “Vecchiaia - inizia il Grande Mimetismo, divento sempre più simile a mio padre». La vecchiaia inizia nel momento in cui cominciamo a scoprire dei tratti genitoriali nel nostro corpo».
Come si sente da finalista del Campiello?
«Siccome i finalisti, al Campiello, sono vincitori della Selezione, per me il discorso si chiude qui. Con grande gioia e divertimento. Poi la finale sarà un momento a sé. E poi è stato bello peregrinare per l’Italia con gli altri tre finalisti. Scoprendo meraviglie di Giorgione, la tomba di Carlo Scarpa».
Mancava solo Ugo Riccarelli, che è morto il 21 luglio.
«Ci eravamo conosciuti di tempi di Pisa, il nostro incontro era avvenuto grazie ad Antonio Tabucchi, che non ha mai insegnato in quella università però viveva a Vecchiano. Poi ci siamo rivisti a Roma, lui citava spesso i miei versi. Che grande tristezza non aver potuto condividere la gioia del Campiello con un amico come Ugo».
Quando ha scoperto di amare la scrittura?
«Al liceo, ma non era ancora un amore importante. Poi un’estate mi sono ritrovato bloccato a letto in seguito a un incidente di moto. La prima settimana tutti gli amici erano accanto a me, poi sono partiti per le vacanze e mi sono ritrovato da solo per due mesi. E lì ho cominciato a leggere i classici, a scrivere in maniera seria. Chissà, senza quell’incidente...».
alemezlo
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